Continua la programmazione dello spazio romano di Maria Grazia del Prete, incentrata sul dialogo tra il curatore Mauro Panzera e i diversi artisti che di volta in volta vengono invitati. Una riflessione su una specifica concezione dell’arte contemporanea, che vede la nozione di formare come nucleo nevralgico della prassi essenziale che caratterizza la sua configurazione. Così, dopo le due mostre che hanno segnato l’inizio dell’attività della galleria, con le risposte, in alcuni casi attinenti e in altri evasive o semplicemente provocatorie -ma sempre coerenti con la propria visione dell’arte- di artisti come
Jannis Kounellis,
Idetoshi Nagasawa,
Giulio Paolini e
Daniel Buren, il ciclo imbocca una nuova strada, presentando il confronto originato fra tre giovani artisti.
In primo luogo e di fronte all’ingresso,
Flavio de Marco (Lecce, 1975; vive a Roma e Milano) -uno degli artisti più peculiari del panorama attuale- propone un lavoro a tutta parete, dove i diversi piani visivi costruiscono una finestra dalla quale è possibile guardare.
Né fuori né dentro, ma semplicemente guardare. Nello stesso punto dove Buren sconvolgeva la lettura dello spazio architettonico nella mostra precedente, l’artista pugliese dà origine a un’inarrestabile curiosità nell’osservare al di là della cornice, per cercare un’eventuale immagine fantomatica, riflettendo sul confine tra lo spazio che appartiene allo spettatore e la linea che segna l’origine di una qualunque rappresentazione.
Massimo Uberti (Brescia, 1966), con un lavoro caratterizzato da un’assoluta freddezza progettuale, disegna con pigmenti pittorici su una porzione della parete un’architettura regolare dell’immaginario, attraverso un segno luminoso, evocativo ma soprattutto rigoroso.
Una concezione razionalista, schematica e rigida che si contrappone alla veemenza e all’impulsività della grande carta esposta da
Emanuele Becheri (Prato, 1973), proveniente dal recente ciclo delle carte nere, in cui l’artista toscano si dimentica del controllo sul supporto, lasciando impronte accidentali, fortuite, ma soprattutto inconsapevoli, segni privi di logica o volontarietà.
Una mostra con notevoli componenti teoriche nella sua progettazione, che indaga sul senso della formazione in sé all’interno dell’arte contemporanea, del suo processo compositivo, inteso come evoluzione in costante sviluppo e mai completamente compiuto.