Presenze eccellenti alla galleria Miralli per la mostra di Antonella Zazzera (Todi, 1976) e Michele Ciribifera (Perugia, 1969). E tra gli altri c’era anche il grande vecchio Enrico Castellani, che si è soffermato a lungo sui lavori della Zazzera. L’opera di tessitura di questa giovane artista proviene da una precedente ispezione fotografica della materia, una sorta di analisi stratigrafica che rileva un microcosmo di bagliori corruschi e d’intrecci profondi. Effetti visivi che ritornano nell’installazione in galleria, composta di due lingue di tessuto rameico intrecciato, dove il cangiantismo della riflessione e della rifrazione luminosa lancia la sua sfida al vuoto dell’ambiente. Antonella Zazzera parte dal tentativo di estrapolare dalla tessitura di segni sovrapposti una nuova testualità della materia. Si tratta di un’attitudine alla manualità che si esprime tramite la manipolazione della luce attraverso superfici riflettenti, ma è allo stesso tempo un ritrovato amore per un fare che non è più semplice manipolazione, ma strumento di organizzazione dello spazio.
Nelle due lingue metalliche e nella fascia angolare esposte a Viterbo ci sono due differenti locuzioni della scultura: una invita alla fruizione cinetica, quella che lo spettatore elabora nell’esperienza della variazione del punto di vista; l’altra è la declinazione del blocco unico, visivamente concentrato nella torsione dello strato intrecciato di fibre.
Per Ciribifera il discorso è diverso, anche se parte da simili presupposti per ciò che riguarda l’ingranaggio spaziale della sua struttura. Il grande elicoide di legno è una mossa barocca per catturare lo sguardo in un movimento ascensionale, una rotazione bloccata in un evento che rimanda alle forme di Pevsner e Gabo. Tuttavia, senza andare indietro fino agli anni Venti, ritroviamo in quest’opera anche quel modo di trattare il legno di Tito Amodei, che è una dichiarazione di appartenenza ad una prassi artigianale.
In definitiva, la suggestione della grande chiocciola sospesa proviene da lontano, dall’esibizione di uno scheletro visivo che è traiettoria del pensiero. Poiché aziona, attraverso la vista, quella torsione spinale che aggancia lo spazio con vertebre continue. Un irraggiamento borrominiano che in Italia conosciamo bene, quasi una ricerca evidente di concretezza.
Questo duo di giovani artisti mostra la volontà di esibire il fenomeno visivo in sè, senza rimandi alla condizione umana. Laddove la condizione umana sembra essere relegata ai margini da una severa, presunta capacità di giudizio, si cerca nell’effetto dell’opera una forza altera di un artificio.
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