Non sono molte le gallerie che possono vantare uno spazio così intensamente frequentato come Volume! dove lo straordinario non è certo la pingue conta dei nomi, bensì un legame spesso dinamico tra progetto e luogo espositivo. La rincorsa della novità, in questo antro costantemente trasformato, è meno importante della presenza di un artista e di un pensiero sull’immagine. Questa volta le voci sono due, quella di Alfredo Pirri, il cui percorso è legato alla vita culturale della città di Roma e alla stessa galleria di Nucci, e quella del polacco Miroslaw Balka, nome giustamente noto alle cronache d’arte europee da ormai un ventennio. Come è stato più volte sottolineato nell’incontro che ha preceduto la presentazione dell’opera, la storia di entrambi nasce negli anni Ottanta, e a quel periodo torna a far riferimento, talvolta da posizioni di netta originalità.
L’installazione è tutta giocata sul rimando continuo tra due momenti differenti nella percezione di un qualcosa che è facile individuare, ancor prima di aver letto la nota stampa, nella città postmoderna. Il suonatore Balka con una tromba vuol galvanizzare le rovine di un decrepito parco metropolitano, uno di quei luoghi in cui si saldano gli scheletri di un’idea urbanistica poi vissuta e logorata dalla realtà, e la riconquista lenta della natura. Una natura sinistramente vittoriosa, barbara, sporca per l’affioramento persistente del giardino umano. La pratica consueta a Balka di adoperare materiali come sapone, cenere, capelli per farne il medium delle sue e nostre memorie, rivive in questi brevissimi video, con protagonista un cestino della spazzatura a forma di pulcino. Il controcanto è una rappresentazione molto chiara, quasi cattiva, dello sfaldamento: Pirri monta tre piattaforme di marmo bianco interrotte verticalmente da lastre di vetro rosa. La superficie continua della base (citazione letterale del pavimento prospettico e dell’utopia rinascimentale) è rotta e come irrigidita dal progressivo acuirsi e spezzarsi del vetro, casuale all’inizio, poi sempre più lacerante, rifilato, aggressivo. L’alfabeto minimo dell’artista, elaborato dagli anni in cui cominciò a sagomare il cartone museale, ha perso il contatto vivificante con una luce che ne diffondeva i vapori nell’atmosfera e sullo spettatore; la ricerca su episodi chiave dell’arte italiana si rivolge a momenti duri (vengono in mente nell’ultima sala gli acuminati Ferri di Alberto Burri, che tanto intimorirono Brandi). Il neon freddo è insieme scenografia urbana e frattura, ricomposizione mancata.
In generale l’installazione sembra radiografare catastrofi distruttive, e propone l’urgenza di un’immagine in violento scontro con la dimensione individuale. La città destrutturata non può essere pietra inanimata o tautologico non-luogo; altrimenti il rischio è per gli artisti stessi, costretti a lavorare su significati che con sempre maggior fatica donano la possibilità di un discorso.
francesca zanza
mostra visitata il 15 marzo 2005
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