I nomi di Stocker e Perone ricorrono di frequente negli ultimi anni, in occasioni espositive di rilievo. L’incrocio delle rispettive carriere si è ora consumato negli ampi luminosi spazi della galleria Unosunove, una delle nuove entrate più importanti nel circuito romano dell’arte contemporanea. Tenuto conto degli ovvi rischi di incongruità che una doppia personale inevitabilmente comporta, si tratta di un incontro che esteticamente funziona. E bene. In questo caso, il legame forte va rinvenuto in una ricerca sulle implicazioni percettive dell’oggetto artistico, un’analisi e prassi di forme -bi o tridimensionali che siano- che, mentre guardano indietro a esperienze passate ormai classiche della contemporaneità, partecipano di una linea che ha rinnovata intensità nella più recente contemporaneità, volta a investigare la tenuta dei sensi ed elementi coinvolti nell’esperienza artistica.
Nel caso di Esther Stocker (è nata a Silandro, in Trentino, nel 1974, ma si è formata artisticamente a Vienna con un’importante esperienza recente a Chicago), i lavori esposti sono tele di medie dimensioni, tutte incentrate sulla verifica del punto di rottura percettivo di forme geometriche rigorosamente esatte. “Dove si trova il punto che tiene insieme una struttura, dove questa si rompe? Quando perdiamo il controllo nel produrre relazioni?” Nell’interrogarsi a questo proposito, l’artista si risponde operando continui slittamenti di reticolati lungo faglie visive instabili. La successione apparentemente serrata di rettangoli dipinti in toni di grigio e nero scarta così dal binario iniziale già dopo pochi passaggi, lasciando l’osservatore sospeso e intento a ritrovare un nuovo cammino stabile al proprio sguardo. Se l’apparenza di simili trasmissioni estetiche in b/n richiama naturalmente l’optical art, ben diverso risulta però essere l’intento che le anima. Come la Stocker stessa ha dichiarato in una recente intervista, al centro del suo lavoro è una nozione di riduttivismo e costruttivismo schiettamente novecentesca, riorganizzata alla luce di una ricerca che, appunto, vuole costantemente tentare la tensione fra ordine e disordine percettivo.
Dalla vibrazione dei sensi visivi alla scabrosità di quelli tattili. Peppe Perone (nato a Napoli nel 1972, ha il suo centro operativo a Rotondi nei pressi di Avellino, insieme al suo fratello gemello Lucio, anch’egli artista), ricorre da tempo alla sabbia per ricoprire i suoi lavori scultorei, realizzati con procedure che, secondo la lezione della pop art più stabilita, fanno ricorso massiccio a oggetti di uso comune. Ancora una volta, occorre tuttavia stare attenti a non appiattire la ricerca dell’artista sull’immediata prassi operativa: Perone, infatti, pare più affine alla linea metafisica novecentesca (Escher e de Chirico, tanto per dire i primi nomi che balzano alla mente) che a quella del pop a stelle e strisce (dove, comunque, Rauschenberg nasconderebbe quasi del tutto Warhol). Lo strato sottile di sabbia che fodera massicce cornici vuote appese alle pareti, alte colonne di bicchieri composte come architetture irreali o successioni di cucchiai che spuntano dalla soglia di una porta, diviene infatti un velo steso con cura sulla facilità dei sensi immediati, e che a sollevarlo rimanda a una dimensione di misteriosa suggestione, dove la meditazione sul tempo (sabbia e polvere come destino, ma anche come perenne transito ricreativo della materia) stringe un’alleanza filosofica con lo sviamento di tatto e vista.
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Bellissime le sculture di Peppe Perone!
Barvo
perone non ha trovato posto nelle bancarelle etniche del lungomare di ischia .poverino
che orgia di banalita'!
tremende banali e inutili le sculture di perone...ottime se esposte nelle bancarelle sul lungo mare di ostia .
mostra che viene polverizzata dalla perfezione dello spazio.
ottimo il lavoro dei muratori e di chi ha dato il bianco alle pareti.
Il lavoro di Peppe Perone invece è di pregievole fattura.