Dopo la mostra al Loggiato di San Bartolomeo a Palermo, arriva a Roma la retrospettiva di
Ugo Attardi (Sori, 1923 – Roma, 2006), in una location legata più all’aspetto affettivo che a quello propriamente logistico. A rendere omaggio all’artista recentemente scomparso sono infatti due suoi amici, Carlo Ciccarelli e Marco Tonelli, gallerista e mecenate il primo, critico e curatore dell’evento il secondo. Palermo è la città dove Attardi crebbe e studiò; Roma quella in cui si trasferì nel 1945, culla del movimento Forma 1 e poi del gruppo Il Pro e il Contro, nonché soggetto di numerose vedute disseminate nell’arco di tutta la produzione del pittore.
È nell’ambito del linguaggio astrattista che comincia il percorso espositivo, con due lavori del 1947 e del 1949. Due soli esempi, cui invece segue una più cospicua produzione figurativa, ben rappresentata dalla serie di ritratti dedicati alle sue muse e modelle. Tra queste spicca la kenyota Melba, raffigurata in pose di riposo da cui traspira un’innata sensualità. L’atteggiamento dormiente si fa motivo di passaggio a una dimensione onirica, con ombre e figure oscure che popolano gli sfondi. Le linee divengono così tracce, alcuni volti appaiono solo abbozzati, con soluzioni che si avvicinano alla poetica visiva di
Francis Bacon. A rendere più esplicito il confronto con l’artista dublinese concorrono le figure di papi e cardinali, personaggi enigmatici circondati da un alone di tetro mistero.
Più vivaci invece le scene argentine, ispirate ai soggiorni di Attardi in America latina. Attraverso i locali raffigurati, l’artista ricrea l’atmosfera da tango, indugiando sulla resa dei corpi delle ballerine e autoritraendosi, come in
Yo también soy medio pierna.
Emerge in questi lavori il contrasto tra i personaggi ben riconoscibili e la scelta astratto-squadrata per gli sfondi o i pavimenti, indizio che rivela l’assestarsi su un proprio e originale linguaggio. Ad accompagnare gli oli, alcune sculture, corpi dalle movenze bloccate, che pure assecondano la passione dell’artista per la sensualità propriamente femminile dei gesti.
Chiudono la mostra le opere degli anni Duemila, dove i toni si fanno più torbidi e la sessualità più esplicita. La tavolozza schiarita non addolcisce lo sguardo, chiamato a confrontarsi con trame intricate. Ed è in questo continuo approccio “esistenziale” che il curatore legge un impegno, non politico né ideologico ma appunto umano, presente tanto nelle opere in mostra quanto nelle incisioni, nei disegni e negli esperimenti letterari (Attardi vinse il Premio Viareggio nel 1971 con il romanzo
L’erede selvaggio).
Un’attenzione alle tensioni, angosce ed emozioni che trapela in tutte le forme del fare arte, incarnandosi poi in passioni e ossessioni peculiari all’artista.