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La mostra è una riflessione politica su come il potere entra in maniera sotterranea nelle pratiche sociali, in casa, nel corpo attraverso la seduzione/desiderio e nel linguaggioâ, spiega
Silvia Giambrone (Agrigento, 1981; vive a Roma). Lâartista si nutre di letture filosofiche, ammira il lavoro di
Ana Mendieta e
Kiki Smith, e dichiara subito lâorientamento della propria ricerca: â
Ho assunto unâereditĂ femminista, non tanto nella direzione di strategia pratica, quanto nellâanalisi delle dinamicheâ. Un linguaggio aperto a possibili sfaccettature, il suo, che prende ogni distanza da qualsivoglia ermetismo autoreferenziale.
Partiamo dallâopera
Speaking your language I learned how to hate you che dĂ il titolo a questa sua prima personale da Nextdoor. La scritta compare su uno specchio rettangolare. Ă una citazione shakespeariana dalla
Tempesta, dove a parlare è il servo che si rivolge al padrone: apprendendo la sua lingua, ha imparato ad odiarlo. In galleria, nel gioco di elementi riflettenti, la grande carta da parati bianca entra nello specchio esattamente come la scritta. Trovano una dimensione altrettanto speculare i due lavori incentrati sullâoggetto-simbolo ciglia finte, nel video
EreditĂ e nella vetrina in miniatura a cui fanno da pendant i due video still.
Il pannello della finta carta da parati supera i due metri, interamente movimentati da un pattern tracciato con la biro rossa, che a ben guardare rivela essere la sagoma della lametta da barba. â
Un oggetto che mi affascina anche per la sua ambiguitĂ â, afferma Giambrone, un attributo maschile dâuso quotidiano, associato allâaggressivitĂ , alla violenza, al sangue, che in questo caso è addomesticato nel suo utilizzo di stencil.
Ă cosĂŹ anche per le ciglia finte (unâidea nata guardando il film cult
Gola Profonda), codice di seduzione femminile. Questo accessorio cosĂŹ fashion negli anni â60-â70 diventa oggetto dâarte in questa interpretazione, in cui la riflessione si sposta su un piano relazionale piĂš che erotico-sessuale. Le ciglia finte di Giambrone sono due piccole sculture in fil di ferro e stagno che compaiono nel video di dieci minuti in cui lei stessa tenta di incollarle alle proprie palpebre. Le opere, come due gioielli, hanno un posto tutto loro in una teca, sulla parete di fronte allo schermo, per richiamare alla memoria le scatoline trasparenti in cui le nostre madri conservavano le loro ciglia finte.
Nel video è quasi ossessiva, snervante â
e anche dolorosaâ la reiterazione del gesto con cui viene focalizzato il tentativo di unire quelle ciglia finte-sculture al proprio corpo. Una palpebra aperta, lâaltra chiusa, il tonfo inquietante dellâoggetto sul pavimento, lâinquadratura fissa del volto della performer limitata tra fronte e narici. â
Mi domando quanto si possa indossare veramente questa pratica sociale, e cosa altro si possa fare. Non propongo alcuna soluzione, perchĂŠ non ce lâhoâ.