Sedici giorni di lavoro -tra febbraio e marzo di quest’anno- e tantissimi scatti, di cui solo quaranta esposti in mostra e nove in più pubblicati nel catalogo. Roma, A Diary 2005, questo è il titolo del progetto commissionato dal Festival FotoGrafia allo svedese Anders Petersen (Stoccolma 1944) che, insieme all’omaggio al fotografo indiano Raghu Rai, dà il via a Palazzo Caffarelli alla rassegna romana di fotografia. Nei lavori su Roma di Josef Koudelka (2003) e Olivo Barbieri (2004) le persone erano assenti e lo sguardo focalizzato soprattutto sui monumenti. Il diario romano di Petersen è decisamente più intimo. Il fotografo definisce i suoi scatti attraverso le “impressioni” che ha visto e sentito camminando per le strade. “La cosa più importante è lavorare attraverso le persone”, dichiara. “Io non sono niente da solo, sono qualcuno attraverso gli altri. Sento molto il bisogno degli amici.” Per questo servizio si è avvalso, infatti, del supporto di due amici fotografi, Lorenzo Castore e Roberto De Paolis, attraverso i quali ha ricevuto le chiavi per entrare nel mondo di altre persone: amici e conoscenti, ma anche perfetti sconosciuti, incontrati in giro, nei bar, nelle case.
“Quello che vedete è quello che io ho visto grazie a questa chiave.” insiste Petersen. La Roma che appare è decisamente non convenzionale e folkloristica, una città dove affiorano le contraddizioni, le realtà più amare, che Petersen ha imparato a conoscere tempo fa, attraverso i film di Pasolini, Fellini e Rossellini: “Roma città aperta è probabilmente il più bel film che abbia mai visto”.
Si respira un’atmosfera molto intensa dove la realtà è, sotto sotto, inquieta. L’obiettivo è puntato su volti e corpi vissuti, sui residui di cibo in un piatto, su uno splendido gatto aggressivo inquadrato senza le orecchie, sui pesci nell’acquario, sui cani. Sono scatti in bianco e nero molto contrastati. Quando fotografa Petersen sembra accantonare la razionalità a favore delle emozioni: “Il cervello lo lascio per così dire sotto il cuscino” sibila. “Uso la pancia e il cuore. Questo è il mio modo di avvicinarmi alle persone e a me stesso. Non mi approccio e vorrei che anche gli altri non si avvicinassero alle mie foto in maniera intellettuale.”
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