Una dimensione peculiare quella di Edicola Notte, un luogo dove le misteriose energie demiurgiche di importanti e stimate personalità dell’arte si sono confrontate nel tempo con la romanità trasteverina più verace. Bruna Esposito (Roma, 1960), uno dei nomi italiani più conosciuti e apprezzati, si insinua in questo non-luogo di faticosa categorizzazione lasciando scaturire da esso riflessioni originali.
Attraverso la semplicità che ha sempre caratterizzato il suo lavoro, per l’evento l’artista propone una scritta in caratteri times retro illuminata con led blu, simile alle insegne pubblicitarie, e colloca all’entrata dello spazio un lumino rosso. Come un’apparizione, dal fondo dello stretto corridoio, emerge la frase Compro Oro. Un progetto che galleggiava nella mente dell’artista da tempo e che aspettava soltanto l’occasione di sposarsi con il contesto più adatto, trovandone in fine uno praticamente perfetto. La forma-loculo dell’ambiente, che suggerisce un vago sapore funerario, permette di amplificarne l’effetto. Onorare qualcuno che non c’è più, ma di chi o cosa si tratta?
“È un’insegna che si vede sempre più frequentemente per le strade, e ovviamente questo è uno dei sintomi della miseria incalzante”, ci spiega l’artista. L’oro è un materiale dalle caratteristiche universali, l’unica unità di misura inconfutabile. Riconoscendone le qualità di merce di scambio privilegiata, la Esposito lo investe di un potere di attrazione ancora più allettante, di un retaggio alchemico che procede al contrario: l’opera d’arte non “vende” oro, non trasforma per stregoneria una sostanza grezza in qualcosa di nobile, ma, anzi, ne riduce tutte le più alte qualità in quelle di un oggetto da svendita. Una riflessione sul tema, scottante e attualissimo, dell’usura, nel senso letterale della parola. Questa, infatti, si identifica nei gesti degradanti di coloro che sanno trarre profitto da chi non ha più nulla da dare in cambio.
Un guadagno senza scrupoli che investe tutta la nostra società, rapita da una sorta di nevrosi collettiva: nessuno può fare a meno di “approfittare” delle innumerevoli occasioni che capitano ogni giorno, perché l’ansia che il treno non ripasserà una seconda volta ci affligge e ci divora. Se la società tende dunque a svendere ciò che è da sempre stato ritenuto prezioso, come l’oro, essa si tronfia nel rendere preziose, emblematiche e assolute cose che in altre epoche non avrebbero avuto nessun valore. Per esempio, come afferma l’artista, persino “gli opinion-maker sono ormai diventati un fatto epico”.
L’oro rappresenta qui un segno dello sciacallaggio dei tempi: non solo rievocando gli “sciacalli” che sotto la guerra andavano a recuperare il metallo prezioso sul corpo dei caduti, barattandolo per armi e pane, ma anche come metafora di un furto che impoverisce lo spirito. Oro, inoltre, come segno d’identità delle popolazioni migranti che, abituate a spostarsi e a fuggire incalzate da un nemico, si sentono costrette a indossarlo sotto forma di gioielli e ornamenti come unica possibilità di sostentamento e di sopravvivenza, in qualunque luogo ci si trovi.
Siamo di fronte ad un lavoro disturbante, che non tranquillizza ma che nella sua drammatica semplicità continua a inquietare. L’opera cattura la nostra attenzione chiamandoci a riflettere: a cosa allude realmente quell’oro, cosa vorrebbe acquistare di così prezioso pretendendolo da noi spettatori?
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bruna esposito, ci faccia il piacere! questa insegna 'che si vede sempre più di frequente' è un retaggio di una miseria antica, i Monti e Banchi dei Pegni che "compravano" oro e lenzuola di Fiandra non sono certo un fatto dei nostri tempi, questi sì indiscutibilmente, grami. in quanto alla penuria, alla luce dei lumini è chiaro come questa finisca col travolgere innumerevoli aspetti della società... creatività "d'artista" compresa.
requiescat in pace, amen.
w cipolla!