Ancora una volta l’Auditorium manifesta la sua natura polifunzionale e la sua inclinazione multiculturale ospitando singolari incursioni artistiche all’interno dei suoi spazi. L’idea originale delle curatrici, Anna Cestelli Guidi e Carla Subrizi, è quella di conferire nuova dignità ad angoli nascosti e praticati solo distrattamente dall’audience abituale della struttura. A partire dal marzo scorso si sono susseguiti, infatti, gli interventi di Silvia Iorio e Guendalina Salini, prevedendo un appuntamento al mese per un totale di nove.
Ora è la volta di Carola Spadoni (Roma, 1969), cineasta e artista visiva, che ha riempito uno spazio difficilmente connotabile -una rientranza asimmetrica e nascosta ricavata dal corridoio di comunicazione tra foyer e teatro studio- con una video installazione concepita appositamente per l’evento. Come aveva anticipato l’artista stessa in occasione della serata dedicatale alla sala Trevi di Roma, al momento sta lavorando prevalentemente con materiale raccolto nel proprio archivio personale. Così in Echo’s Bones/Ossi d’Eco, un loop di sei minuti circa proiettato su un maxi schermo di 3 metri per 4 posto in prospettiva leggermente diagonale nella penombra dell’angolo dell’Auditorium, sono venute a convergere diverse location ed esperienze. Le immagini riprese durante due viaggi distinti in Sicilia e Sardegna sono state recuperate dall’artista in un conturbante montaggio a cerchio che conduce lo spettatore a vivere un percorso mentale in un (e in nessun) luogo.
Nei vicoli di cemento armato che costituiscono le crepe e le fenditure dell’imponente Cretto di Gibellina -l’enorme colata di cemento realizzata tra il 1984 e il 1989 da Alberto Burri sul fianco del colle dove il terremoto del Belice aveva fatto collassare su se stessa la città- l’obiettivo della telecamera si muove indagatore, non lasciando percepire mai l’estensione del Cretto nella sua interezza. “È come se si avesse il suolo ad altezza occhi, che è il punto di vista del terremotato, in effetti”, spiega la Spadoni, “si tratta di un paesaggio destabilizzante, metafisico, l’opposto di quello che vedi attorno a te, ovvero la natura e il verde; è una bella impronta umana.”
A partire dalle prime immagini, dove sono protagonisti solo cemento e cielo, assistiamo progressivamente all’intrusione impercettibile della vita naturale, di foglie e alberi. La presenza umana non si palesa mai, ma viene lasciata invece presagire dall’architettura desolante delle costruzioni. In un secondo tempo, l’occhio-macchina procede, in slow motion, alla circumnavigazione di un edificio semi abbandonato che potrebbe appartenere a qualsiasi periferia di città e su cui si staglia minacciosa l’insegna rossa Kill Time. Tutto ciò produce un effetto di inquietudine, di nostalgia per un luogo che sembrerebbe familiare ma che potrebbe essere qualsiasi altro. Una cifra stilistica che richiama le atmosfere della mise en espace di cinema DIO è MORTO, presentato dalla Spadoni alla Biennale di Venezia del 2003, in cui la calura estiva, la desolazione, l’aria rarefatta e sospesa facevano da sfondo alla passeggiata di svestizione di una cow-girl. L’abbaiare di un cane, poi, ci risveglia dal torpore ipnotico del loop circolare avvisandoci che il viaggio è in procinto di ricominciare o di finire, a seconda dei punti di vista, come una spirale centripeta e senza meta.
Il suono, fatto di vento e di rumori, sia d’archivio che originali, impiega in diversi punti frequenze basse, che arrivano al corpo oltre che all’udito” e avvolge le immagini alimentando la tensione da thriller già presente nel montaggio. La Spadoni infatti rivela: “è come se fosse il punto di vista di qualcuno che è appena atterrato lì; in fase di lavorazione ho perciò visualizzato il suono come se si trattasse di un astronauta nel suo scafandro che recepisce il rumore interno attutito”.
La scritta Kill Time, come provocatoria esortazione o come constatazione, ritorna su una delle schiene ricurve delle astronavi nere dell’Auditorium, in un fotomontaggio credibilissimo che introduce al lavoro. Un’opera site specific che sarebbe interessante vedere realizzata. “L’Auditorium è un posto dove l’architettura è prevalente, un posto per il suono, per la musica, e questo lavoro è tutto architettura, spazi, suono; ho come voluto aprire una finestra inquietante dentro l’Auditorium stesso, una finestra su un altro mondo”.
marta silvi
mostra visitata il 17 maggio 2007
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