Comincia sin dal cancello della villa, l’incontro con Antonietta Raphaël (Kovno, Lituania, 1895 – Roma, 1975). Dopo aver percorso un ameno vialetto, ecco che sostano placidamente all’esterno della palazzina due grandi sculture: La Genesi e La fuga. Sembrano quasi essere parte integrante dell’ambiente che le circonda, vuoi per via del bronzo poco lavorato, che rimanda volutamente ad un materiale grezzo, vuoi per l’originarietà simbolica delle figure stesse, femminili, morbide e legate al tema della maternità.
All’interno dell’edificio il percorso espositivo vero e proprio, che continua alternando sculture a disegni e dipinti, nei quali ultimi si intravede fortissima l’influenza della pittura ebraica. E d’altronde l’artista lituana ha sempre dichiarato quanto questa religione, questo humus, abbia influenzato la sua arte, insieme alla sua vita. “Due cose mi tormentavano da piccola: la religione e il sogno. La prima mi è rimasta in eredità dai miei genitori e si è fusa con la loro indomabile fede che, come il grande pendolo di un orologio si muoveva, si dondolava di continuo, ora da un lato ora dall’altro, regolando la loro vita artistica e morale…”. Così scrive nel suo diario, nel 1943.
Ma l’uso che l’artista fa di questa ascendenza va oltre il semplice aspetto formale. Dalle vedute di Roma, agli autoritratti, alle figure sanscrite, la pittura diventa uno strumento per indagare, senza eccessive pretese antropologiche, gli aspetti colorati e vivaci che il contesto culturale acquista nelle sue varie espressioni. Dipingere diventa un modo di descrivere la dimensione culturale dell’uomo. E lo fa con quello che lei definisce “uno strano procedimento”: “curo molto il disegno, ma non come fanno gli altri con forti contorni neri, ma con il color degli oggetti stessi proposti sul fondo stabilito. E tengo presente il colore dei vari oggetti in rapporto allo spazio. E continuo questo gioco: gli oggetti fra di loro e lo spazio e il
E il sogno? Il sogno, a differenza della religione, prende una strada diversa: si concretizza nel materiale duro, ma allo stesso tempo duttile, del bronzo, del marmo, del legno. Sono le sue sculture che danno forma al sogno. Un sogno che si identifica con il senso dell’originario, della Natura, la Natura naturans che si rivela nella natura naturata, e di cui la Raphaël, col suo lavoro, cerca di rivelare il segreto. “Il Toro è il lavoro a cui tengo maggiormente. […] È grandioso! Rinchiuso in sé stesso e in profonda Meditazione, come una Divinità. Non so se le divinità si innamorassero come narra la Mitologia. Ma il Toro, che fu creduto una Divinità presso gli Egizi e presso altre religioni in Asia, il mio Toro, l’ho visto soffrire per amore…”. Questa pagina di diario, scritta a Genova nel 1945, rende bene l’idea di quale visionarietà paganeggiante muoveva il suo mettere le mani sulla materia, per mallearla, modificarla, darle la forma –fino quasi a darle la sostanza– del sogno. Quello stesso sogno che l’accompagnerà tutta la vita e del quale dirà, nel ’69: “Ho camminato un bel po’ di strada, ma che importa? I miei sogni sono sempre bellissimi. Continuo a sognare i miei sogni da bambina…”.
Una bambina diventata donna che sentirà sempre dentro di sé l’urgenza dell’elemento primigenio, vivificante, creatore dell’uomo e del mondo, e che della sua appartenenza al genere femminile fa un fondamentale punto di forza fino a scrivere, nel ’59: “ti ringrazio Dio, di avermi creato donna e di avermi infuso tanto amore per le mie bambine, per la natura, i fiori, la musica e la mia scultura”.
valeria silvestri
mostra visitata il 17 aprile 2007
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