L’Accademia di Francia ospita, per la prima volta in Italia, un’ampia retrospettiva di George Grosz (Berlino, 1893-1959) e della sua arte “narrativa”. Alla sintesi grafica dei disegni fa infatti da contrappunto una capacità di cogliere, in pochi tratti, tutto il dramma della società in cui l’artista si forma.
Gli anni della Repubblica di Weimar si raccontano nei disegni del giovane Grosz degli anni Venti: caricature di una società borghese satura di perbenismi e false conciliazioni. Qui mette in evidenza le nefandezze dell’aggressività umana e, accanto alle scene della vita cittadina, alla “quasi pacatezza” delle visioni futuriste del mondo della tecnica (Locomotiva, 1912), pone le impietose risse, le rivolte (Rivolta, 1912) e la rappresentazione nuda e cruda del bestiario umano.
La prima sezione della mostra prepara l’occhio, attraverso l’esposizione di inedite bozze, per la sostanza di una vena grosziana di caricaturista “impegnato” nella critica dell’attualità che egli vive anche per esperienza diretta: la partecipazione alla Prima Guerra Mondiale e la realtà ospedaliera tra morti e feriti. Il contributo teatrale, uno dei temi della mostra, si articola e forse si disperde all’inizio del percorso espositivo -non attrae nella sua singolarità rispetto alle altre aree con le quali invece si confonde- come una pausa di respiro nel salto da un’arte di prova, di osservazione (consegnata allo sguardo antropologico della curiosità adolescenziale), a quella successiva, più propriamente politicizzata e affine ad un pamphlet di maniera. Le opere teatrali, nei soggetti e nei loro costumi, regalano una tanto macchiettistica quanto reale rappresentazione della società e preparano alle scene posteriori, dove al grottesco si sostituisce la verità crudele del regno del terrore totalitarista.
Particolare attenzione, nell’esposizione come nella produzione autoriale, viene data al tema della carne: accanto agli orrori della guerra, dei cadaveri e dei corpi mutilati, delle espressioni ottuse degli ufficiali in divisa e dei commercianti opulenti, si collocano i quadri della carne macellata, quella animale, in bella vista in vetrina, o sullo sfondo di un luogo di lavoro. Qui la cura dell’artista si concentra sul viso stesso del lavoratore, umanizzato nei tratti, negli occhi in particolare (Macellaio, 1928), in contrapposizione netta ai pochi segni accennati, dei sorrisi beffardi che le figure del potere, macellai di carne umana, mostrano (Primario Dott. Bautze, 1927).
Passando per Boccioni e de Chirico, Grosz approda al Dada e si appropria dell’arma del collage di cui più risente negli anni americani -nel ‘33 vi emigra conseguentemente all’ascesa nazista- addirittura prefigurando la pop art successiva (Corso di cucina, 1958). I temi si fanno più pacati, alla satira corrosiva precedente si sostituisce un’altra critica: quella al capitalismo vigente. Astrae i contorni, perde la punta affilata della penna, il tratto lineare della china e dà vita a La danza dell’uomo grigio (1949), unica emblematica pittura a olio, punto di raccordo fra i due contesti nazionali, forse non adeguatamente premiata dalla collocazione museale solo a fine percorso, circondata dalle illustrazioni che Grosz fece per alcuni testi teatrali e letterari da Ben Hecht alla Divina Commedia. La conclusiva concezione dell’artista è palese nel collage rappresentativo Io e New York (1957), che chiude idealmente la mostra, dove Grosz ha il trucco di un pagliaccio e il corpo di una ballerina sullo sfondo della metropoli americana. Se la storia è una storia di decadenza, citando Philippe Dagen (catalogo Skira), l’artista “è un miserando buffone”. La denuncia di Grosz è ancora una volta alla cortigianeria verso una società oppressiva e i suoi rappresentanti.
chiara li volti
mostra visitata il 13 maggio 2007
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