Osservati a distanza, dall’ingresso della galleria, i
volti in primissimo piano nei grandi quadri si evidenziano netti: figure di
donne e uomini, giovani e meno giovani, memorizzati da
Massimo Livadiotti (Zavia, 1959; vive a Roma)
durante un lungo viaggio in India. Man mano che ci si avvicina, però, i tratti
si scompongono in impercettibili filamenti di luce-colore, accostati sulla tela
senza mescolarsi con piccoli tocchi di pennello. E ciò che prima si amalgamava
nell’occhio dell’osservatore sembra via via polverizzarsi.
Per raccontare la prima fase del suo nuovo progetto
espositivo, Livadiotti rivisita con perizia straordinaria il linguaggio del
Divisionismo.
Nell’ambito
di un personale
iter
simbolista – spesso legato alla metafisica dechirichiana – l’artista già negli
anni ‘90 aveva esplorato “
la prospettiva dell’aria“. Di fatto ritiene la
pittura un linguaggio a 360 gradi, perché “
lo stile è ciò che si ha dentro”,
afferma.
Questo ciclo pittorico si compone di sei lavori che, posti
ad
altezza
d’uomo,
“offrono allo spettatore la possibilità d’incontrare gli sguardi dei
soggetti e, attraverso gli occhi, di scrutare all’interno delle loro anime”. Anime incontaminate, quelle
degli induisti/shivaisti, dalla cultura di “
origine così antica da farci
pensare sia fonte di tutte le religioni successive”.
Dal primo all’ultimo dipinto, il segno tende a rarefarsi.
La tessitura si smaglia, lasciando percepire territori (non a caso la serie si chiama
Paesaggi) che
riguardano più la sfera dell’incorporeo che quella del tangibile.
Al piano inferiore, la seconda fase del progetto:
l’installazione
Il bosco degli Spiriti, che intitola la mostra. Rappresenta il gesto
conclusivo di un’intensa comunione fra l’artista e un suo giardino segreto – quasi
un
hortus conclusus – di cui ha dovuto privarsi. Una sorta di scenografia a parete composta
da sei tronchi, dipinti questa volta con la tecnica della miniatura. L’opera
prescinde qualsiasi vocazione naturalistica: sul legno di ulivo, ad esempio, è
riprodotta una palma (piante associate simbolicamente, nella cultura
cristiana). “
Ho usato la superficie del tronco come una pelle, dipingendovi
sopra un ritratto di albero ideale, evocativo”, spiega Livadiotti.
L’ultima fase di questo progetto a più livelli,
Anime, è in un certo senso il
trait
d’union fra i due
cicli precedenti. Qui l’artista ha effigiato, su due tronchi del suo giardino,
due volti che ne rappresentano l’essenza animista: quelli di una donna e di un
uomo indiani.
L’albero, secondo tradizioni arcaiche, siamo noi stessi, e
la nostra stessa sorte è connessa alla sua. Attraverso invisibili radici, ci
ricollega con il ricco e misterioso mondo della madre terra.