Il concetto moderno di galleria nasce con l’obiettivo di creare uno spazio espositivo possibilmente asettico, materno e non offensivo nei riguardi dei lavori ospitati, aperto al pubblico più vario e privo di campanelli alla porta d’ingresso. Il
white cube teorizzato e praticato negli anni ‘60, in grado di lasciare viva e intatta la volontà espressiva dell’opera, senza interferire con essa né oscurarla.
Lo spazio di Larry Gagosian a Roma rispetta tutte le regole dello stile guadagnandone in estensione, location, luce e maestrìa degli architetti coinvolti nel progetto,
Firouz Galdo e lo
Studio Caruso St John Architects. Il cubo si trasforma in ovale così come la banca insediatasi nell’edificio degli anni ‘20 diventa galleria. Una magia da Re Mida che solo Gagosian è in grado di praticare. E in Italia fa notizia. Se da un lato Gagosian si augura “
di diventare parte della vita culturale di questa città straordinaria”, in realtà non sembra parlare di integrazione, quanto di indifferenza nei confronti del contesto. La situazione romana vive di punti di aggregazione ristretti, spazi che traggono faticosamente ossigeno dall’aria stantìa di vecchie glorie un po’ trascurate. Non esiste galleria ampia più di un terzo dello spazio di via Crispi. I collezionisti non sono numerosi, ma molto attenti. Atterrare come un’enorme astronave da luoghi lontani, tendendo la mano a quelli che contano (più nella politica e nello spettacolo che nell’arte) vuol dire badare poco ai ritmi della comunità artistica che da anni si sforza di cambiare direzione alla giostra arrugginita dell’arte romana, imponendo un nuovo corso e accaparrandosi le luci della ribalta.
Ai livelli di Gagosian (sette gallerie all’attivo, di cui una a Beverly Hills, tre a New York, due a Londra e una a Roma) è difficile parlare solo di arte. Il mercato la fa da padrone, fagocitando gli artistar e sponsorizzandoli in tutto il mondo. È una scelta che si può condividere o meno, ma che di fatto manovra e conduce le fila dell’arte con più di tre zeri. Probabilmente nella capitale, e più in generale in Italia, manca una media borghesia artistica che riempia il gap tra piccola e grande “impresa” venuto palesemente alla luce.
Il trittico imponente di un
Cy Twombly (Lexington, Virginia, 1928; vive a Roma) maturo e riflessivo -con le sue larghe pennellate di bianco sgocciolante, come grafismi di un linguaggio indecifrabile, sul denso fondo verde, richiamo alla natura lussureggiante di Salalah, oasi sul mare al cospetto del deserto di sabbia più grande del mondo- sembra pulsare dalle pareti lucenti di vernice fresca, quasi a corredo di uno spazio più carico di significati delle opere stesse. Tre immense tavole nella sala centrale, due manifesti con l’invito alla mostra velocemente abbozzati all’ingresso, una scultura in bronzo e una in gesso rappresentanti colonne afasiche come totem in equilibrio instabile e un collage su carta Fabriano racchiudono tutta la mostra.
Davvero poco generosa in confronto allo spazio e alle aspettative. Un decorativismo che non si addice all’artista, ma che nella sinergia di obiettivi prevale a causa del contesto. Leo Castelli insegna: l’arte può diventare mercato, ma innanzitutto dev’essere arte.
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recensione davvero coraggiosa anche perchè sicuramente la mattina appena svegli il primo pensiero di gagosian e del suo staff è quello di controllare cosa la grande fanzine exibart.com dice a proposito del suo operato nella capitale....
Complimenti per la recensione, misurata e non prona al marziano appena sbarcato in città con la sua astronave.
Per quel che riguarda il contenuto della mostra, in effetti da Twombly ci si sarebbe aspettato qualcosa di più: i manifesti amanuensi all'ingresso poi sono imbarazzanti, neanche fossero il cartello di una festa autoggestita. La sala piccola però ha una sua misura, e i due lavori esposti funzionano molto bene: forse il problema è che uno spazio come quello ovale è troppo connotativo e la visione di ogni cosa al suo interno viene distorta (così la neutralità del bianco delle pareti è solo apparente, annegando i lavori esposti per proiettare mero sfarzo architettonico). Chi sa cosa riserva la prossima mostra.
I migliori complimenti per questa rece.