La mostra è disposta su due piani del museo (mal collegati tra loro) con un percorso espositivo che, pur volendo essere cronologico, spiazza il visitatore, facendolo iniziare dalla fase matura dell’artista per poi tornare agli esordi e quindi giungere -dopo un trasferimento al piano inferiore che costringe anche ad attraversare un’improbabile galleria di pitture settecentesche- all’ultimo periodo creativo. Nonostante questo (oltre all’accompagnamento visivo di un apparato didattico a dir poco ingombrante) la mostra dedicata ad Umberto Mastroianni riesce comunque nell’intento di rendere un profilo completo di questo protagonista dell’arte novecentesca.
Nato in provincia di Frosinone nel 1910 (scomparso a Marino –Roma- nel 1998) ma artisticamente formatosi a Torino, dove si trasferì nel 1926, Mastroianni ha segnato il corso della scultura del secolo scorso con una personalità sanguigna e passionale, perfettamente resa dai suoi drammatici bronzi e ferri, i quali hanno presto ottenuto ampio riconoscimento (confermato, ad esempio, dal conferimento del gran premio per la scultura alla Biennale di Venezia nel 1958 e del prestigioso Praemium Imperiale di Tokyo nel 1989) per la loro caratteristica dinamicità, perennemente in bilico tra conflagrazione materica e meccanica spigolosità. Dopo un primo periodo figurativo in cui l’artista si appropria con maestria della tradizione classica soprattutto nell’esercizio della ritrattistica, e un rapido ma importante passaggio attraverso la plasticità d’impronta cubista, Mastroianni perviene a una personale scultura di sintesi (la definizione è di Giulio Carlo Argan, che sull’artista ha lasciato contributi critici fondamentali), dove l’impianto monumentale risulta sempre animato da una drammatica astrazione.
La cesura storica e personale della guerra appare, in questo senso, assolutamente centrale, come dimostra anche l’esplicito riferimento da parte dello scultore a una propria poetica della resistenza (altra formula coniata dall’Argan), visivamente esplicitata in uno scardinare violento delle forme e nel superamento di uno spazio geometricamente definito. Non a caso, del resto, si è spesso parlato al riguardo di un periodo informale, poi stemperatosi nell’immaginifico macchinismo visionario perdurato fino alla morte, avvenuta nel 1998. In opere come Battaglia o Hiroshima (rispettivamente del 1957 e 1961, entrambe provenienti dalle collezioni della Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma), colpisce in effetti la straordinaria capacità dell’artista di far esplodere la materia, scabra come se appena scampata a una definitiva combustione ed esempio concreto del rovello creativo che l’artista esponeva con parole di caratteristica drammaticità: “ma noi sappiamo oggi, davvero, cosa significa dare alla scultura la violenza del sangue? […] possiamo noi artisti moderni ignorare il calore, l’energia di questo elemento fondamentale? Far nascere una scultura senza squartare, insanguinare la materia vivente?”.
Accanto all’attesa ricognizione del magistero di Mastroianni nelle arti plastiche, peraltro, la mostra romana ha il merito di presentare anche il meno noto esercizio della pittura, anche se forse sarebbe meglio parlare di scultura su carta e tela. Soprattutto nel periodo tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta, l’artista ha infatti realizzato potenti opere visive per molti versi significativamente anticipatrici delle ricerche di Fontana e Burri di poco successive, come due opere quali Rilievo plastico bruciato e Sacco dorato, risalenti al 1946 e 1950, stanno a dimostrare con vigorosa intensità.
luca arnaudo
mostra visitata il 13 gennaio 2006
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