Quante volte in una giornata siamo toccati dalle immagini, dal mondo visuale, visivo e visibile. Quante volte durante la nostra vita apriamo gli occhi, lasciamo che l’interno di noi stessi sia colpito in maniera più o meno vigorosa da ciò che la consuetudine ha definito come esterno alla nostra fisicità. Qual è la forza che l’immagine esercita sul nostro intorno e al nostro interno. Tali questioni fanno parte della ricerca artistica e filosofica di Emilio Isgrò (Barcellona di Sicilia, 1937), artista siciliano di origine e milanese di adozione, che torna ad esporre a Roma dopo oltre quindici anni di assenza.
Presso la galleria è allestita una mostra antologica, situazione ideale per ripercorrere l’opera e il discorso socio-politico di Isgrò. Partendo dal 1971 con un’installazione in 7 parti e 7 varianti nella quale è subito proposto il “Dichiaro di non essere Emilio Isgrò” (seguito dalla firma dell’artista), si procede in senso cronologico con le tappe fondamentali del percorso dell’artista, oltre a quelle che gli hanno regalato maggior popolarità. Parliamo della teoria delle “cancellature”, vero e proprio breakdown nella società delle immagini che nei primi anni Settanta cominciava a creare il suo humus e che oggi vive fertilmente. Questo almeno dal punto di vista quantitativo, mentre da quello della qualità, secondo Isgrò, l’unica tendenza è quella verso “l’americanismo che ne segna inevitabilmente limiti e confini”.
Le opere presenti in mostra relative al periodo degli anni Settanta sostanzialmente richiamano i due canovacci citati sopra. Gli anni Novanta segnano la parabola creativa di Isgrò in senso più marcatamente politico e di critica verso la mancanza di religione laica dell’arte.
A questo proposito si possono apprezzare Braccio (1991) e Competition is competition (1999), nelle quali lo stimolo ad una lettura più complessa e globalizzata è affidata alla relazione tra immagine, parola e “riso amaro”. L’ultimissima produzione dell’artista siciliano è occupata dall’inserimento di inquietanti formiche al fianco di cancellature e da cartine geografiche che diventano una base sulla quale eliminare il segno della parola e al tempo stesso dare nuova linfa al suo significato.
L’intero percorso cronologico ruota intorno all’installazione Castore e Polluce (2007), macroscopica unione di semi d’arancia realizzata in fiberglass, che rimanda inevitabilmente alla terra natia di Isgrò, centro di un ragionamento culturale di matrice “classica” e incrocio di modelli espressivi.
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