C’è il vecchio adagio filosofico “uomo e natura” che ha attanagliato per secoli le menti intellettuali più vigorose, si è incarnato nei quadri, in opere letterarie e oggi è motivo di fondo di rivendicazioni di tipo sociale e comunitario. L’Uomo, in senso universale, lo si figurava pur sempre al maschile, mentre la Natura, potente amica o nemica, al femminile. Non è per ciò stravagante che, nell’ambito dei movimenti identitari degli anni ‘70, un’artista come
Ana Mendieta usasse lo stratagemma simbolico di genere per la propria declinazione della Body Art.
Fu in quegli anni che la fotografia, sino ad allora mera testimonianza dell’esistenza d’una performance, si legittimò come arte a tutti gli effetti.
Cecilia Paredes (Lima, 1967; vive a San José e Philadelphia), di quegli anni e della Mendieta, è indubbia debitrice. Ma la sua è una citazione d’autore trasposta ai tempi odierni; c’è insomma meno violenza nel gesto della peruviana rispetto alla cubana.
In un’opera in mostra a Roma, dove il soggetto della rappresentazione è l’artista stessa, Paredes si rivolge diretta all’obiettivo, alla maniera di
Frida Kahlo quando, autrice e opera al tempo stesso, lanciava la sfida dello sguardo allo spettatore.
Final Garden appare tuttavia come un hortus conclusus sul quale il buon
Duchamp, nemico di un’arte retinica, avrebbe avuto da ridire: al visitatore resta poco da fare, se non guardare. Pecca un allestimento che risente della struttura di una galleria non resa funzionale nell’utilizzo di luci direzionali o di altri dispositivi di orientamento.
Inutile costruire ponti di significato fra le opere: non ve ne sono, o non sono così evidenti. Le fotografie, di grande formato, sono riprodotte su una superficie lucida che spesso riflette lo spettatore, distogliendo l’attenzione. Alla regolarità della pianta della sala, ex-quadreria di Palazzo Santacroce, un open space di grandi dimensioni, vien fatta corrispondere un’esposizione classica con le fotografie/quadro a parete, a opportuna distanza l’una dall’altra. Qui lo spettatore è invitato a “stanziare”.
La scelta di sciogliere alcune di esse dall’aderenza alle pareti e di trattenerle con fili invisibili a mezz’aria avrebbe raccolto maggiori consensi se le fotografie fossero state collocate più centralmente nella sala, anziché rimanere a poca distanza da quelle mura dalle quali sembrava volessero conquistare indipendenza. In sostanza, è impossibile girarvi intorno e l’opera, seppur “sospesa” nel vuoto, permette unicamente uno sguardo frontale.
Una rete di conchiglie, protagonista di uno dei lati del salone, è l’unica installazione tra le fotografie. Una scelta che appare coerente con i contenuti della mostra: l’artista è in “muta”, come un rettile che cambia pelle; si spoglia di una membrana, ma sotto ne ha un’altra da mostrare. Non un’attività camaleontica, perché è nel distacco tra la pelle e il corpo che si ritrova la più netta analogia con il travestimento: indossare e spogliare.
Solo questa mimetizzazione consente all’artista di giocare con il simbolico stato d’unione panica con la natura. Sia pure quella artificiale di un fiore disegnato sulla parete.