Occupano lo spazio dei Mercati di Traiano e sembrano esserne naturalmente parte, come se il trascorrere non esistesse e tutto si fosse realizzato in un’epifania improvvisa, che materializza quel che resta di un’architettura monumentale insieme alle opere appena deposte di un artista – demiurgo.
Sono sei sculture, in un percorso che inizia nella Grande Aula, prosegue nelle stanze laterali e probabilmente finisce (o si reitera) nel suono cupo di una sola nota del “Gong”, sospeso in alto: un intervento misurato, scandito, suggestivo; forse l’intento di Eliseo Mattiacci era proprio questo: trascrivere nelle forme semplici del cerchio, della sfera, della retta, quel che è complicato, sconosciuto, dilatato, ricondurre l’entropia all’equilibrio di due poli che si attraggono, evocare il moto nella tensione che imprigiona ferro e magnete, che blocca le sfere, ma che non turba il silenzio, l’ordine prodigioso.
Cinque dischi di ferro sembrano sorvegliare lo spazio centrale: non rotoleranno, resteranno nella medesima posizione trattenuti (e si potrebbe azzardare trattenuti in un eterno presente) da enormi magneti, lasciati ben visibili; cinque cerchi che dialogano con il sistema di arcate, “pieni”, immobili a determinare una serrata intelaiatura di vuoto. (“Equilibri” 2001) Nelle tabernae, le altre opere, visibili come dall’orlo di una cavità ombrosa. Una lama di ferro sospesa grazie ad un magnete, sotto, aderente al terreno un anello piatto, metallico: l’energia del “Campo magnetico” (1991) sembra diventare densa, quasi coagularsi nella forma di una semisfera invisibile, ritagliata nello spazio “carico” tra l’arco e l’anello. Poi, un labirinto di travi di ferro, quasi un sistema di diagonali moltiplicate, e una sfera, simile ad un pianeta, (l’opera è “Labirinto per una sfera”, 2001), quindi una distesa di pallini di piombo, in cui le sfere di alluminio galleggiano o emergono solo per metà (“La mia idea del cosmo” 2001, presentata anche nell’allestimento “Novecento Arte e storia in Italia”); nella grande arcata di fondo, in alto, un disco scuro, come l’immagine di un astro, percosso, produrrà un suono (“Gong ” 1992 – 93), forse l’unica voce nella suggestione misteriosa di una cosmogonia, in cui nessun rumore trapela.
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Semplicemente sublime.
Se io sapessi scrivere, vorrei saper scrivere come Maria Cristina nella prima parte di questo articolo.
I miei complimenti.
Ciao, Biz.
Si tratta della prima persona di un italiano in questo meraviglioso spazio espositivo della capitale.
veramente interessante
Sono pienamente d'accordo con Paolo e mi unisco nel farti i complimenti per il tuo bellissimo articolo; articoli come i tuoi rendono Exibart una realtà veramente poetica.
Con amicizia per tutti
ciao
per Biz:
semplicemente, grazie.