Sono
costruzioni mnemoniche che partono da lontano – affiorano, poi s’insinuano nel
presente – quelle che affascinano
Virginia Ryan (Melbourne, 1956; vive a
Trevi, Perugia, e Accra). L’artista, viaggiatrice e scrittrice
australiana (ma è cittadina italiana dal 1981) ha camminato molte volte per le
spiagge immense del Ghana – Pram Pram, Jamestown, Labadi, Anomabo – affondando
i piedi nella sabbia impalpabile.
Passeggiate
alla scoperta di tesori di “
antropologia contemporanea”, come li definisce Ryan. Quei frammenti di
ciabatte in plastica, pettini, forchette, bottiglie, bambole, lembi di tessuto,
reti di pescatori, conchiglie, legno… Sono viaggiatori disillusi, eroici
sopravvissuti di un’epoca piena di contraddizioni.
Oggetti
che, viaggiando, si caricano di altri significati. La metamorfosi comincia tra
i flutti dell’oceano per continuare sulla battigia, nello studio di Accra e
approdare, infine, nei luoghi dell’arte: prima bagnati e poi asciugati al sole,
raccolti, collezionati, rielaborati, questi pezzi acquistano – per mano
dell’artista – un’identità nuova.
Il
corpus di
Castaways è costituito
da duemila moduli 26×30. Un
work in progress iniziato nel 2003 e destinato a proseguire, a
breve, in Costa d’Avorio, e di cui lo Spaziottagoni presenta una selezione
concepita come
site specific.
Rispetto
alle precedenti esposizioni di Accra, Manchester e Spoleto, questa romana offre
ulteriori spunti di riflessione, attraverso le due elaborazioni fotografiche
della serie
Elmina (2004-07),
oltre ad
African Cube e altre
opere di
Topographies of the Dark (2008) e, per la prima volta,
Sentiero (2009).
I
suoni dell’Africa, nell’interpretazione ed elaborazione dell’antropologo e
musicologo americano
Steven Feld – autore anche di
Anomabo Shoreline e del video
Where water touches land (2007) – si diffondono negli ambienti della galleria, coinvolgendo
emotivamente lo spettatore.
La
luce calda dei tramonti tropicali entra negli assemblaggi di
Castaways, resi immortali dalle tracce dorate che
illuminano la vernice bianca che avvolge ogni pezzo, liberandolo – proprio
attraverso quest’“
atto di purificazione” – dai limiti della riconoscibilità.
È
il riaffiorare di una memoria collettiva che non può essere cancellata, come
quella a cui rimanda
Elmina.
Volti di uomini che si stagliano sullo scenario dell’omonima fortezza ghanese,
sito storico che dal 1482 – quando fu edificata dai portoghesi – fino al 1871
fu snodo fondamentale sulla rotta della tratta degli schiavi.
Un
passato indelebile, quindi, che si srotola come in
Sentiero, dove Virginia Ryan disegna una
texture fitta di suole che s’incastrano, passo dopo passo,
ed evocano la forma del sampietrino. In
Topographies of the Dark, invece, è il nero a inghiottire la materia, a
omologare l’insieme: pezzi di sandali lambiti dal catrame, sfiorati dai granelli
di sabbia. Echi di storie lontane e di realtà vicine, nei vortici della
corrente.