Dopo la partecipazione alla rassegna Videolounge, torna a Roma Gina Tornatore, questa volta con una personale fortemente voluta da Matteo Boetti: un grande sforzo produttivo e lunghi mesi di lavoro per presentare i nuovi video dell’artista australiana, appositamente realizzati per Autori cambi.
La Tornatore concentra la sua attenzione sul rapporto corpo–spazio, sulla gestualità, sull’espressione corporea, escludendo quella fonetica.
Le azioni dei suoi protagonisti sembrano irrazionali, non conducono ad alcun fine e chi le compie è costretto in un ruolo al quale è condannato al di là della propria, seppur non manifesta, volontà.
Come automi si muovono i personaggi del dittico Echo chamber. Costretti su di un palco, sono schiavi di una rappresentazione coatta di loro stessi, in una sorta di film corale in cui non è previsto alcun contatto tra gli attori: ognuno vive il proprio spazio isolatamente. Neanche l’abbandono del set li salva: l’azione è ciclica e gli attori, in una perenne entrata e uscita di scena, si ritrovano ad occupare la stessa posizione nella proiezione frontale.
La stessa sensazione d’isolamento pervade gli altri video: in Cacth (struggles and roll), due uomini rotolano, uno dopo l’altro, per la stessa strada in discesa, in un inseguimento privo dell’incontro finale e le figure femminili di Acting up (the thing that’s in your head) in una stessa stanza compiono gesti autonomi, senza alcun tipo d’interazione. In un ambiente sterile ed asettico, una, avanza ed indietreggia passandosi le mani nei capelli, mentre l’altra rotola a terra contorcendosi come nell’impossibilità di controllare il proprio corpo: il medesimo setma due situazioni separate ed autonome.
Un ticchettio d’orologio, costante ed ossessivo sottolinea la tensione ed accompagna l’attività corporea ossessiva
Nel quarto film Dead finks don’t talk, l’impostazione cambia ed ora le azioni del protagonista hanno uno scopo e nella loro consequenzialità si concretano nella narrazione di un suicidio (o forse di un omicidio).
La Tornatore racconta di esser stata influenzata, nell’affrontare questo tema, dalla cultura del Sol Levante – che ben conosce avendo studiato il giapponese per alcuni anni – ed in particolare dai film di Kurosawa. Proprio nella ritualità dei gesti preparatori al fatale evento è ravvisabile la sacralità dell’harahiri, smorzata, però, da quel velo d’ironia e cinismo che si risolve nella scelta del finale aperto, in cui al sangue dell’uomo è accostato quello delle bistecche in cottura.
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