Il cinema, si sa, è un mondo parte. Hollywood, poi, non ne parliamo. La fabbrica dei sogni, la chiamano. Annidata sulle colline di Los Angeles, è alimentata delle fantasie più vivide e fertili che un essere umano possa avere, in qualunque parte del mondo si trovi. Sin da bambino,
David Strick (Los Angeles, 1950) ha potuto guardare “da dentro” tutto questo. Si è trovato, ignaro, a passeggiare fra teatri di posa che racchiudevano questa realtà artefatta e ne ha vissuto la magia ma anche la visione straniata che poteva derivarne, alla stregua di un ragazzo che si trova ad aver a che fare con i personaggi di uno dei più riusciti libri di Lewis Carroll. Cresciuto, ha deciso che questa dimensione “altra” e, malgrado l’età, ancora straniante doveva essere raccontata. Per farlo ha utilizzato l’unico mezzo che lo rendesse possibile: la fotografia.
Nel suo lavoro, i fermo-immagine colti dall’apparecchio sembrano provenire da un altro pianeta. Situazioni che poco hanno ha che fare col film e la sua produzione, ma che vivono di vita propria, dotati di una forza espressiva che si pone al confine di ciò che è possibile considerare normalità, consentendo così a chi vi assiste di gettare uno sguardo furtivo sull’irrazionalità pura, come se di sfuggita ci fosse permesso sbirciare dietro il famoso specchio di Alice. Esperienze che fanno sentire per un attimo, ma un attimo che dura una vita, come nel film
Hellzapoppin’, con il tizio che regge una pianta sempre più grande e corre disperatamente gridando
“Signora Jones!”. Solo che la signora Jones risulta essere la segretaria di produzione e la pianta a crescita accelerata una parte della scenografia, magari di un remake de
La piccola bottega degli orrori. E tuttavia, l’intuizione momentanea di qualcosa che, una volta contestualizzato, risulta assolutamente coerente e funzionale, tocca gangli della percettività che ci aprono a qualcosa di surreale. Una surrealtà calata nel quotidiano, circondata dalla formicolante attività di un lavoro creativo certo, ma professionale e qualificato come pochi altri.
Eppure tutto questo, improvvisamente, si perde. Ed è indubbiamente il fatto di essere lo specchio di qualcosa che è già dentro di noi, legato al fascino irresistibile dell’incoerenza e del desiderio di uscire fuori dalle gabbie del ragionevole, nonché di fare del sogno la nostra casa permanente, che rende tanto pregnanti le foto di Strick. La mostra ha anche il notevole pregio di miscelare con perizia l’ironia, e perché no, la vera e propria comicità che pervade il lavoro dell’artista, con il suo lato più poetico e stralunato, che sembra perdersi nei meandri del pensiero e della memoria, e che spesso viene sottolineato da un bianco e nero granuloso quanto intenso. Insomma, c’è tutto il mondo del cinema in queste foto, e tutto il mondo dell’autore, ormai fusi l’uno nell’altro. Alla ricerca dell’attimo cogente che metta in discussione la tranquillizzante quanto asfittica nozione di “normale”.