Se si escludono le proiezioni e il filmato nella prima sala, la galleria presenta grandi stampe che riproducono l’immagine seriale di uno stesso volto. Ambiguo e proteiforme, varia secondo l’incidenza dell’illuminazione, l’angolazione, il trucco, il variegato complesso di manipolazioni tecniche. È il volto di una tra le più affermate rappresentanti della fotografia contemporanea,
Katharina Sieverding (Praga, 1944; vive a Düsseldorf e Berlino).
L’artista, nota per le trasposizione degli eventi della sua epoca su gigantografie, si è concentrata sull’autoritratto, declinando le molteplici possibilità d’essere. Una sorta d’investigazione del sé elaborata attraverso il doppio registro della finzione e del rituale, condotta mediante quella che Roland Barthes definisce “
un’astuta dissociazione della coscienza d’identità“, che si produce nell’assunzione del sé come altro. Il ricorso all’analisi attraverso l’autoritratto fotografico (ingenerata da una matrice femminista) come critica allo stesso processo di rappresentazione la avvicina a fotografe quali
Hannah Wilke e
Cindy Sherman.
Se quest’ultima, però, si avvale della nozionale spaccatura tra artista e persona raffigurata, in Sieverding le due istanze sono palesemente fuse.
Oscillando in una perpetua tensione fra ricerca e affermazione, metafora e somiglianza, l’artista utilizza la propria personalità mutevole come
media e come simbolo. Lo scopo basilare è di trasmettere l’idea della metamorfosi: dell’essere umano e della natura, dell’arte e della scienza, dei fattori psicologici e del mondo esterno (società, costume, apparenza).
Trasformazione è il tema della mostra, centrato grazie a una scelta curatoriale che ne ha rintracciato il filo conduttore lungo il percorso dell’artista, dalla fine degli anni ‘60 fino ai recenti
Visual Studies.
Nel primo ambiente della galleria, un documentario fotografico girato a Roma -dove Sieverding visse tra il 1972 e il 1973- attesta il fermento socio-politico-culturale di quegli anni. Gli incontri nello storico spazio-garage di Fabio Sargentini con personaggi quali
Joseph Beuys (con cui l’artista ha studiato alla Kunstakademie di Düsseldorf) alle prese con la lettura di
Anarchius Klots o con
Gino De Dominicis, che si copre il viso con un foglio di carta. Le opere della Sieverding hanno la facoltà di dominare lo spazio, creando un simultaneo impegno per l’osservatore e l’osservato, e sono dotate di un possente simbolismo.
Nella sequenza
Die Sonne um mitternacht schauen X/VI (
Guardando il Sole a mezzanotte, 1988), il viso dell’artista ricoperto di polvere d’oro e con eruzioni solari può ricondurre all’athanor, “
l’alto forno cosmico” (Rudolf Schmitz) dove avvengono le trasmutazioni della materia alchemica. Nella serie
Life-Death si distingue il ritratto
VII/3. Qui l’artista, rifuggendo il rapporto visivo diretto con lo spettatore, contempla la propria immagine riflessa su un cucchiaio. Allusione alla fase lacaniana dello specchio, può suggerire la presa di coscienza dell’identità che, per formare il sé, subisce una lacerante quanto inevitabile separazione.
La fotografia, simulacro della morte, dà conto di una resurrezione simulacrale. Scrive Jean Baudrillard: “
Di là da tutti gli specchi, o nei loro sparsi frammenti [..] bisogna cercare di vedere l’indeterminatezza radicale della vita e della morte”.