Nel 1927 Werner Heisenberg scoprì che la natura probabilistica delle leggi della meccanica quantistica poneva grossi limiti al nostro grado di conoscenza della realtà. Tale limitazione, denominata Principio di Indeterminazione, implicava una comprensione sempre sfuggente delle cose, cancellando le convinzioni acquisite. Su questo principio di incertezza sembra appoggiarsi il lavoro di Vittorio Messina (Zafferana Etnea,1946) fatto di forme mai compiute che definiscono trascuratamente lo spazio, luoghi senza ingresso né uscita, architetture precarie deambulanti nel vuoto.
Così un lavoro come Stanze con vista verso sera diventa un organismo fluttuante tra scultura e architettura, realizzato con materiali di ambito edile come il cemento o il ferro. Costituito mediante l’assemblage e l’inserimento di diversi elementi presi in prestito dal quotidiano, apparentemente incompatibili tra loro, come le tubature a vista, una scala metallica e tre ombrelli colorati fissati come protezione. La robustezza dei ruderi progettuali si arricchisce in contrasto con la delicatezza della copertura effimera, mentre la grigia malinconia industriale si attenua di fronte alla vivace esaltazione dei colori degli ombrelli, creando un impatto visivo polemico che lascia lo spettatore in sospeso, suscitando dubbi e interrogativi.
Come in altre occasioni anche questa volta l’artista ha fatto uso di elementi luminosi. È il caso di Pentalux, un massiccio armadio di cemento e ferro che accoglie grucce luminose a cui sono appesi abiti bianchi. La luce del neon si insinua dall’interno dei vestiti come una struttura ossea vista attraverso una radiografia, creando un’atmosfera affascinante e futuristica. Atmosfera alla quale si contrappone 4 finestre, una serie di pannelli dove l’abituale mondo caotico e industriale di Messina trova riposo nella serenità -e serialità– del monocromo.
Il singolare spazio, strutturato su due piani, permette al lavoro Balcone al sud -uno specchio sporto dietro una balconata- di agire da nesso di congiunzione col piano inferiore, invitandoci a scendere verso un’installazione percorribile. Due porte, shift red e shift white, celano stanze che è possibile solo intravedere attraverso spioncini. Contemporaneamente viene proiettato un video in cui predomina un lacerante intimismo, incarnato dagli ombrelli colorati -segno distintivo del lavoro dell’artista siciliano- sedie e cavalletti di legno bagnati dalla pioggia. Quest’ultima, nelle sue più diverse intensità, invade con il suo suono tutta la stanza, trasformando la percezione delle cose e del contesto in cui viviamo. Ma anche quella di noi stessi.
angel moya garcia
mostra visitata il 6 febbraio 2007
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