Che
l’arte sia sempre stata materia per sociologi è chiaro ai più; che abbia incarnato
rivelazioni più o meno antropologiche lo mostra la quantità degli studi volti
ad apprendere, attraverso le immagini, i costumi e gli aspetti del passato.
Tuttavia, è quando cade ogni impuro mecenatismo che l’artista è finalmente
libero di prendere la parola. E, nella
Full Immersion offerta,
Walter Picardi (Napoli, 1978) prende
letteralmente la parola.
La
questione politica e sociale è un filo che si dipana nel suo operato nelle
forme più svariate: dalla fotografia alle installazioni. L’attivismo di fondo è
incarnato in contenuti scomodi e in forme irriverenti. È
questa l’occasione di
una denuncia diretta della mafia, dell’omertà, dell’impotenza delle grida di
rivolta, di una cruda realtà del Sud che è malessere dell’Italia tutta.
All’ingresso
della galleria sono eretti, allineati come se stessero esibendosi su un palco
ideale, quattro grotteschi elementi. Sono blocchi di cemento da cui emergono,
qui e là, lembi di vestiti: un tutù e la visiera di un cappellino; alla base
spuntano le estremità delle scarpe; in cima, uno di essi mostra un’infantile
coda di cavallo; un altro ha delle buste della spesa attaccate ai lati. La
famiglia, martire e vittima. La mafia, con i suoi soldi, con i suoi appalti, e
il cemento che butta addosso alle persone, che uccide, brutalmente, nel fisico
e nello spirito.
Nell’opera
di Picardi, i quattro blocchi corrispondono ai quattro componenti d’una
famiglia: una coppia con due bambini. Sogni da ballerina per la piccola col
tutù, vita da casalinga per la madre con le sporte, il padre invece batte il
tempo con il piede dinanzi a un microfono: un occhiolino alla tradizione canora
campana, un cenno al doppio senso del “far cantare” come
dell'”aver parlato troppo”.
L’installazione
si racconta da sé, e con discrezione lancia un messaggio di morte che sia
volano di vita.
L’approccio autobiografico si palesa venendo a conoscenza della
provenienza dell’artista da uno dei quartieri periferici del napoletano, a
contatto con le storie degli sguardi più che dei discorsi, degli occhi volti verso
terra, del passo accelerato e delle parole bisbigliate.
Il
tempo narrato è solido quanto il cemento in mostra: i quattro appartengono
tanto al passato quanto al presente. Possiamo facilmente provare a indovinare
quali sogni di gloria nella carriera dello spettacolo e della danza faccia la
bambina, quali le ansie domestiche della madre carica della verdura e della
frutta del mercato, quale l’aspetto bonario e solare del menestrello
napoletano.
La
mostra si conclude al piano sotterraneo, dove l’arcata e il soffitto ribassato
mostrano affinità concreta con gli spazi sacrali dove venivano conservati gli
ex-voto. Troneggia l’avvoltoio inciso sul plexiglas lucido, presagio di morte,
trattato con la modernità dei materiali artistici. Un avvoltoio che non sorvola
alcunché, perché, pacifico, saprà che avrà il giusto pasto.