In attesa dell’arrivo di Luca Massimo Barbero alla direzione del Macro e della conseguente programmazione per il museo capitolino, giunge a Roma – dopo le tappe di Hanoi, Singapore, Seoul, Tokio, Taipei e New Delhi – la mostra
Italian Genius Now, rassegna promotrice la creatività italiana, prodotta dal Pecci di Prato e realizzata in collaborazione col Ministero degli Affari Esteri.
Una mostra destinata al grande pubblico, con la quale si pretende di diffondere e legittimare per l’ennesima volta il
made in Italy e, in particolar modo, il design e l’arte italiana degli ultimi cinquant’anni. In quest’occasione, la mancanza di criteri filologici o storici nel percorso e di un vero filo conduttore tra i lavori esposti provoca un palese disorientamento, ma anche una sorta di gioco da intrattenimento, alla ricerca – negli ampi spazi dell’ex-mattatoio – delle idee che hanno segnato l’immagine italiana proiettata all’estero.
Così, per citare soltanto alcuni esempi, il visitatore potrà trovare dalla Vespa GS 150, realizzata nel 1955 da
Corradino D’Ascanio, alle scarpe di
Salvatore Ferragamo, dalle ceramiche di
Aldo Londi a Michael Schumacher esultante nel lavoro specchiante di
Michelangelo Pistoletto, dall’eccezionale installazione
La spirale appare di
Mario Merz a
Senza titolo di
Enzo Cucchi (le due novità rispetto alle precedenti tappe della mostra) e agli oggetti d’uso comune e quotidiano nella versione fumettista di
Stefano Giovannoni.
Senza voler sollevare troppe polemiche per la selezione di artisti e designer, nonché per la selezione delle opere – spesso veramente incomprensibile -, si punta certamente sulla spettacolarità di nomi, materiali, dimensioni o riconoscibilità internazionale, ma anche e soprattutto sul pragmatismo, riconvalidando proposte fin troppo consolidate. Un conservatorismo lontano da qualsiasi rischio propositivo, che all’estero può ancora provocare stupore e ammirazione per il genio italiano, ma che proprio in Italia risulta eccessivamente tradizionalista.
Risultando interessante, tuttavia, osservare le migrazioni e le influenze tra i diversi campi, ci si deve chiedere se ha veramente senso continuare a proporre e a investire su modelli espositivi completamente obsoleti, soprattutto perché non è l’unica rassegna italiana di questo genere in giro per il mondo. Si tratta di un modello adatto forse per esposizioni universali o rassegne di più ampio spettro, ma scevro di novità concettuali e, infine, ripetitivo.
In una situazione globale di profonda crisi economica non si può pretendere di risorgere e riprendersi legittimando i soliti miti nazionali e gli stereotipi più collaudati. Al contrario, si dovrebbero cercare fra le rovine quegli spunti di qualità, d’innovazione e di “nuovo genio” che possono rimediare le necessarie risorse e potenziare nuove pianificazioni culturali. Per non affondare definitivamente.