02 marzo 2004

fino al 18.IV.2004 Samuel Fosso Roma, Calcografia

 
L’Africa degli anni ’60-’70. Il nonno guaritore e capovillaggio. Lo studio fotografico aperto quando aveva solo tredici anni. Dai primi autoritratti in b/n e quelli in cui mette alla berlina velleità e ipocrisie della società occidentale. Una mostra racconta Samuel Fosso…

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Racconta di aver lavorato gratis il primo giorno. Per farsi pubblicità. Fotografo per vocazione e perché era un lavoro meno pesante, che mi avrebbe permesso di rimanere in ordine e pulito, Samuel Fosso (Kumba, Camerun, 1962) apre il primo studio a Bangui nel 1975: ha appena tredici anni, lo scenario è la Repubblica Centrafricana sotto la dittatura di Bokassa, un vero e proprio impero del terrore che si consuma tra l’indifferenza e –in molti casi- con la connivenza occidentale (il governo è sostenuto militarmente dallo stato francese), miete vittime e assume spesso i contorni di una surreale, raggelante pantomima (come quando Bokassa si fa ritrarre con tanto di bicorno napoleonico…).
I primi autoritratti di Fosso nascono da un desiderio di libertà di cui è difficile comprendere la portata se non in rapporto con le vicende dell’Africa negli anni Settanta. Scatta utilizzando gli scarti dei rullini; tutto il giorno ha fotografato i clienti nello studio, la sera fa autoritratti: per la prima volta mi sentivo vivere. Ero sano. Diventavo grande. Una specie di rito di passaggio, dice.samuel fosso_le chef_dalla serie tati 1997
Una sorta di passaggio –epocale- si sta davvero consumando: tra il ’76 e il ’77 arriva la moda Yé-Yé! e la musica di Prince Nico, divo che canta in creolo. Sulla copertina del disco Sweet Mother lui indossa stivaloni a zattera e pantaloni alla pescatora con le frange: diventa un’icona. Amante, rockstar e pappone, scrive Okwui Enwezor.
E proprio il medesimo abbigliamento lo avrà Fosso in uno dei suoi autoritratti: tableaux vivants studiati e costruiti nel dettaglio, dal fondale (puntualmente svelato e dichiarato dall’inquadratura che Fosso preferisce non tagliare) agli oggetti scena. Facile che vengano in mente le foto di Seydou Keїta -con il campionario di abiti e gioielli, in quel caso tradizionali, messo a disposizione del cliente- o di Malick Kidibé o la sapiente regia (ma l’incipit è sempre la foto popolare) di Mama Casset. O –con i dovuti distinguo- la suggestione delle mise en scene di Yinka Shonibare (soprattutto guardando la Série Tati di Fosso, realizzata nel ’97).
samuel fosso_autoritratto_anni La mostra allestita in Calcografia (curatori: Guido Schlinkert e Maria Francesca Bonetti) ripercorre la produzione di Fosso attraverso le serie più famose: dai primi ritratti in b/n in studio, agli autoscatti anni’70, alla Série Tati (dove con un certo compiaciuto istrionismo veste i panni di una disparata galleria di tipi: dal pirata, al manager, all’assurda Femmina liberata americana, negli anni’70). Fino alla recentissima Rêve de mon gran pére (2003) omaggio al nonno e ritorno alle origini: dove mette in scena -isolati sullo sfondo uniforme di una tenda blu- gesti e rituali di un guaritore.

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Ynka Shonibare

mariacristina bastante
mostra vista il 12 febbraio 2004


Samuel Fosso, a cura di Guido Schlinkert e Maria Francesca Bonetti
Calcografia, via della Stamperia 6 (Fontana di Trevi), 066780118, tutti i gg 10-19, ingresso inero 6 euro, ridotto 4 euro, catalogo 5 Continents Editions 40 euro


[exibart]

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