Skyline urbani avvolti nel silenzio e nella foschia della non rinoscibilità. Come del resto la strada, con i passanti catturati nello loro dinamiche quotidiane. Spesso sono al di là di un vetro, elemento di raccordo fra interno ed esterno, nonché filtro tra la visione reale oggettiva e quelle particelle emozionali che sfuggono, liberando un’interpretazione tutta personale dell’autore.
Alcune volte è
David Perlov (Rio de Janeiro, 1930 – Tel Aviv, 2003) a guardare fuori, attraverso la finestra di casa, dell’albergo o la vetrina di una caffetteria; in altre occasioni il gioco è inverso. In questo caso, dalla strada si sofferma a osservare il rito di anonimi personaggi intenti a prendere il the o a leggere il giornale.
Anche le strisce pedonali, i semafori intermittenti o i fari delle automobili entrano nel racconto del quotidiano di questo raffinato intellettuale e cineasta israeliano, che lascia qui e là traccia della propria presenza attraverso qualche autoritratto: timidi quelli dove s’intravede riflesso sul vetro di una vetrina, più espliciti quando la sagoma si ricompone nello specchio dalla cornice dorata.
All’inaugurazione della mostra -fra i pezzi forti del Festival FotoGrafia, che vede questa sua settima edizione incentrata proprio sul tema
Vedere la normalità. La fotografia racconta il quotidiano– anche la vedova, Mira Perlov, ripercorrendo alcune tappe biografiche del marito sottolinea l’importanza della componente pittorica nel suo lavoro. Perlov, infatti, aveva lasciato il Brasile nei primi anni ’50 diretto a Parigi, con l’obiettivo di studiare all’École des Beaux Arts. Esperienza abbandonata per dedicarsi completamente al cinema in qualità di assistente di
Henri Langlois (fondatore, insieme a Georges Franju e Jean Mitry, della Cinémathèque Française) e collaborando con il cineasta olandese
Joris Ivens.
Sono circa ottanta le fotografie esposte alla Gnam, attraverso un percorso che inizia nel 1952 a Parigi -immagini in bianco e nero, di grande forza espressiva- per arrivare al 2002. Nel 1958, Perlov deciderà di stabilirsi definitivamente in Israele, prima in un kibbutz poi a Tel Aviv, ma il suo altro polo rimarrà sempre Parigi.
In mostra anche uno slide-show dei suoi scatti e la proiezione del video
Revisited Diary 1990-1999, mentre a Palazzo delle Esposizioni la selezione di film include il documentario
In Jerusalem (1993), sintesi della sua poetica, riconosciuto come una delle sue opere più significative.
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Lo scopo delle osservazioni nomadi di Perlov sembra più che altro quello di continuare a porsi dei quesiti che spingano il nostro pensiero verso quell’abisso all’interno del quale è collocata la sostanza della sua e della nostra interiorità”, scrive Maurizio G. De Bonis, curatore della mostra insieme a Orith Youdovich.
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Questo atteggiamento di ricerca incessante non gli impedisce mai di contestualizzare, però, le sue esperienze nella vita concreta. In questo modo, Perlov evita il pericolo del qualunquismo e si mostra al fruitore delle sue immagini, fotografiche e filmiche, in tutta la sua umana fragilità, senza difese intellettualistiche e atteggiamenti da artista demiurgo”.