La più grande “sfortuna” di
Sebastiano del Piombo (Venezia, 1485 – Roma, 1547) è quella di aver vissuto in un’epoca e di aver operato in città dominate dai mostri sacri (già allora indiscussi) dell’arte. A Venezia, con artisti del calibro di
Giovanni Bellini,
Giorgione e
Tiziano; poi a Roma, con altre due teste di serie come
Michelangelo e
Raffaello. Ma il più grande merito, unanimemente riconosciuto all’artista veneto, è quello di aver definitivamente introdotto la tecnica della pittura a olio nel panorama romano, specie nelle sue sperimentazioni sui supporti, che lo condusse ad adottarla addirittura sulle pareti. Insieme a un altro merito: esser riuscito a fondere la formazione con il
Giambellino prima e con Giorgione poi alle reminiscenze fiamminghe e alle influenze di quei protagonisti indiscussi dell’arte a Roma nel Cinquecento.
La mostra, che riunisce le principali opere conservate nei più prestigiosi musei internazionali, rinsalda la già diffusa convinzione che Sebastiano (Luciani alla nascita) sia uno dei principali attori del Cinquecento, anche alla luce dei recenti studi critici, che gli hanno definitivamente assegnato opere a lungo attribuite a Raffaello (in fondo, una ulteriore conferma di quanto Sebastiano avesse assimilato e fatte proprie alcune espressioni artistiche).
Com’è noto, è conosciuto come Sebastiano del Piombo a seguito dell’incarico di piombatore pontificio, che implicava l’entrata nell’ordine del clero minore, ma che ebbe la rovinosa conseguenza di aver rallentato, se non addirittura fatto cessare del tutto la sua attività di artista.
Quanto ai lavori in mostra, nel
San Crisostomo e Santi, per la prima volta il santo principale non è rivolto ai fedeli, bensì assorto nella lettura degli antichi testi, e gli astanti (un gruppo di tre donne a destra e tre santi a sinistra) sono percorsi da una certa vivacità, che conferisce loro disinvolte posture.
Nel
Ritratto di uomo in armi -immagine-simbolo della mostra- tutto il vigore trova sfogo nella torsione del movimento: il viso rivolto, come di scatto, verso destra e il busto, invece, verso sinistra. Nel
Triplo ritratto si ha l’opportunità di vedere riuniti i tre grandi veneti: Tiziano, Giorgione e Sebastiano. Mentre il periodo più cupo, la scesa dei lanzichenecchi e l’“esilio” in Castel Sant’Angelo insieme a papa Gregorio VII, si avverte confrontando i Cristo che portano la Croce: in quello del Prado, la completa eliminazione del contesto ambientale mette maggiormente in risalto il volto scarno del Cristo, che si staglia rassegnato al proprio destino.
Unici due nèi di questa importante mostra sono il pesante allestimento -firmato da
Luca Ronconi– che costringe le opere in una sorta di cornice e impone una visione forzatamente frontale e distante, e la difficile illuminazione. Quasi a giorno sono, infatti, illuminate le opere, mentre in pressoché totale penombra è il resto della sala: marcati scarti di luce che costringono continuamente a regolare la messa a fuoco. Mentre, nella parte oltre l’allestimento, l’illuminazione vuole esaltare, con tonalità diverse a seconda dell’ambiente, anche lo stesso contenitore, le strutture e la decorazione dei saloni che la ospitano (tonalità verde nella prima sala; rossa nella seconda e blu nella terza). Una barocca ridondanza, vista la forza intrinseca delle opere.
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Giusta la critica all'allestimento. Perchè presentare le opere come gioielli unici e non parti di un insieme da ricostruire storicamente? La solita industria culturale da Italietta, che punta al colpo di scena firmato dal solito noto...
Attratto dal nome dell’artista, del quale ero interessato in particolare al “ritratto di Giulia Gonzaga” considerata all’epoca la donna più bella del mondo e animatrice della principesca corte di Fondi, ho visitato la mostra incuriosito anche dall’allestimento di Luca Ronconi. Le opere, tutte meritevoli di interesse, alcune stupende, vengono presentate all’interno di “finestre” aperte lungo pareti continue.
Ben calibrata a mio avviso la luce sulle singole opere ma..le sale sono immerse in una luce …lugubre e cupa!. Non una “luce guida “ a suggerire il percorso, stimolare l’attenzione vigile, deviare lo sguardo dalla fissità delle opere!, una cappa pesante ed inquietante!
Soffro di leggera claustrofobia ed ho un senso di malore..vorrei scappare, fuggire alla luce..problema mio mi dico! Chi mi accompagna, immune da sindrome claustrofobia..avverte la stessa sensazione, lo stesso senso di disagio, non riusciamo a fruire le opere come meriterebbero!. Tentare di concentrarsi accentua il senso di smarrimento temporale e spaziale..a gran fatica proseguo, proseguiamo e finalmente, ripeto, finalmente usciamo alla luce! C’è il libro dei visitatori, fimo ed esprimo il mio commento nei termini anzidetti, il mio disagio . Alla base di ogni buon allestimento a mio avviso ( e con un minimo di competenza tecnica da architetto che si occupa nache di questo) ci dovrebbe essere non solo la valorizzazione delle opere ma anche la creazione di quel “benessere ambientale” per creare il quale la luce è ovviamente componente essenziale.Leggo gli altri commenti; frequento molte mostre da molti anni..raramente mi è capitato di leggere una così diffusa critica da parte dei visitatori. Ne esco deluso, amareggiato ed arrabbiato per non essere stato messo nelle condizioni di apprezzare le opere al meglio ( questo è il compito dell’allestitore caro Ronconi…!) Ci credete che non sono in grado di dirvi se il ritratto di Giulia Gonzaga fosse o meno in mostra?