Nelle “stanze” che ripartiscono la galleria -spazi mentali e/o fisici creati da dieci artisti per esporre la propria interiorità- si accede dalla
Porta-Segno Arte di
Michelangelo Pistoletto. Figura formata dall’intersezione di due triangoli, che inscrive idealmente un corpo umano con le braccia alzate e le gambe divaricate, è metafora di un passaggio evolutivo che fonde arte e vita. Per l’artista, “
immette sia nello spazio riservato, intimo, personale, sia nello spazio degli incontri sociali”.
Un oggetto d’arredo di forte valenza segnica è anche l’armadio
Case Arms di
Braco Dimitrijevic. Le ante semiaperte mostrano una gigantografia; sopra il mobile, una zucca. Dimitrijevic inventa una sintassi in tre piani, che sancisce la coesistenza di valori disuguali, spesso contraddittori. Come nella serie
Triptychos post-historicus, dove capolavori presi in prestito da musei si relazionano con oggetti quotidiani e prodotti della natura.
Più avanti, l’installazione di
Fabio Mauri. Uno scheletro di
Chaise longue inquadra una foto: l’artista bambino insieme ai fratelli sul culmine di un tetto. Si ripropone qui il leitmotiv dell’assenza e della distanza, proprio delle creazioni del filosofo-artista. Seguono
Morphic Resonances I e II di
Loris Cecchini, forme oscillanti tra natura e artificio, e
Aprile 2008 di
Donatella Spaziani, emancipazione catartica dalle barriere della propria fisicità attraverso luoghi limitati e limitanti.
Poeta della precarietà nascosta dietro un’apparente stabilità -della vita e della cultura-
Ettore Spalletti presenta le celebri
zig-zag di
Rietveld, sedute rivisitate con la leggerezza e il colore di una risma di carta velina. Avvalendosi del suo costante “strumento visivo”,
Daniel Buren in
Couleur et ombre portées n. 10 esplora le correlazioni fra l’opera d’arte, il luogo in cui essa prende forma e lo spettatore.
Nel “luogo” concepito da
Ontani, l’atmosfera -per i barocchismi e l’aspirazione al trascendente- si tinge di orientale. La grande fotografia stampata in lenticolare è incorniciata d’oro, sorta di icona-finestra sul mistero supremo. L’artista, ironico narciso dall’ego ipertrofico, attinge al mito per riprodurre un ennesimo se stesso nelle vesti di Penelope che indossa/toglie una maschera, secondo il punto di osservazione.
La
Città/Arlecchino di
Alfredo Pirri oltre la lastra di plexiglas è bianca nella cinta esterna, algida come il suo
White cube. All’interno, non uomini miniaturizzati a fissare il vuoto delle pareti, ma un’esplosione di colori e un ribollire di trasparenze. Infine,
Mimmo Paladino e
Doriana & Massimiliano Fuksas, con due opere già viste alla Triennale di Milano del 2006.
Oro e pepite, trittico in legno rosso con sculture bronzee, e
Corpus, coffee table luminoso in rame e silicone.
Il confluire dell’immaginario dei tre artisti, capaci di realizzare un’unitarietà ambientale e atmosferica, riconduce al filo rosso che lega tutti gli artisti in mostra. Percorrere la strada dell’interiorità per confrontarsi e dare vita a un dialogo sulle attuali problematiche sociali, compresa la multiculturalità. Fondare territori dove il singolo possa affermare la propria identità attraverso una poetica personale e al tempo stesso partecipativa. L’arte, dunque, non più esclusivamente come “
portatrice di modifiche estetiche” ma, come suggerisce Pistoletto, di “
etici cambiamenti”.