Nonostante le diverse attitudini delle imprese, che alle relative pratiche si dedicano solitamente in primavera, per l’impresa dell’arte è l’autunno la stagione dei bilanci: se si tiene in conto, infatti, la premiata ditta
Italics di Francesco Bonami a Venezia, l’operazione curata da Ludovico Pratesi a Roma pare parte di una curiosa partita doppia, per quanto di ben diverse dimensioni e portata restino comunque i due eventi.
Nei fatti, l’esposizione capitolina intende prendere in considerazione una dozzina di artisti anagraficamente piuttosto giovani (e, guarda caso, quasi tutti presenti anche nella passerella sulla laguna), nel tentativo di tracciare un quadro aggiornato dell’arte italiana corrente, senza pretese di sistematizzazione ma con un intento per così dire ricognitorio. L’inquadratura è in tal senso fortemente fotografica e, nello sgombrare il campo dalla somma degli altri mezzi espressivi, circoscrive non poco l’ambiziosità del progetto, fino probabilmente a limitarlo oltre misura. Ciò tanto più considerato che le secche valutazioni, rese in catalogo, circa la predominanza della fotografia nella condotta artistica delle ultime generazioni patrie, non paiono poi molto convincenti (soprattutto, proprio non si vede perché “
la fotografia nell’arte” dovrebbe rendere “
più evidente ed esplicita la matrice concettuale dell’opera più della pittura”, come invece asserisce Laura Cherubini, senza fornire ulteriori lumi al proposito).
Al netto di tale riserva, la mostra risulta in ogni caso interessante, a tratti capace di sguardi di coinvolgente freschezza. Nessuna novità particolare, per carità – e dunque nella visione le ennesime modelle nere di
Vanessa Beecroft si susseguono ai coatti desperados di
Botto e Bruno o ai teatri spaziali e marchigiani di
Grazia Toderi – ma la presenza di alcune opere più diagonali rianima e slancia l’intera operazione. È il caso di un intenso paesaggio uggioso di
Luisa Lambri, trasfigurato dal semplice filtro di una tenda domestica, o ancora dell’intimista
camera verde di
Giovanni Ozzola, dove nel digradare di una luce meridiana tipicamente italiana s’incastonano dettagli attenti e misurati, a definire una coinvolgente sospensione temporale.
Per non parlare di uno scatto nel Saharawi di
Armin Linke, in cui l’incandescente drammaticità degli elementi risulta mirabilmente raggelata dall’algida maestria compositiva dell’autore. Ancora, il nervoso ghepardo catturato dall’occhio di
Paola Pivi – e divenuto logo della quarta Giornata del Contemporaneo – in un’architettura di tazze di cappuccino, come un calembour visivo tra le pubblicità della Lavazza e i surrealismi letterari di un Jacques Brosse, rappresenta l’ennesima conferma della notevole capacità dell’artista milanese di delineare sempre nuove, quanto tra loro coerenti, straniazioni d’inquieta bellezza.
Chiudono la partita i nomi di
Massimo Bertolini,
Lorenza Lucchi Basili,
Sabrina Mezzaqui,
Diego Perrone,
Daniele Puppi e
Patrick Tuttofuoco, tutti riuniti negli spazi piacevolmente circolari del chiostro interno dell’università che ospita la mostra. E vale senz’altro una meditata passeggiata, mescolandosi fra gli studenti di passaggio.