“La révélation m’est venue de l’Orient” ammetteva Henri Matisse e che l’oriente sia stato molto di più che una fonte d’ispirazione per artisti –e scrittori- di quasi tutti i secoli è fatto noto e documentato. Dal mito dell’Egitto nel Rinascimento, al fascino arcano degli oggetti importati dalle Indie (quelle orientali), alle odalische di Ingres, alla Morte di Sardanapalo dipinta con le tinte fosche di un’orgia da un Delacroix decisamente illanguidito. Cambiano i tempi, ma l’oriente –nella maggior parte dei casi privo di coordinate geografiche esatte- né perde mordente né allenta la presa, solletica la fantasia, s’insinua nei sogni: vagheggiato più che visitato, idealizzato, variamente raccontato.
Così non resta immune al fascino discreto ed inesorabile dell’est neanche il secolo appena trascorso ed è ai viaggiatori celebri degli ultimi cinquant’anni del 900, quelli che in oriente effettivamente ci sono stati, che è dedicata questa mostra, tra le proposte più interessanti della seconda tranche del Festival di Fotografia. Ospitata –non è un caso- nell’Acquario Romano, nel cuore dell’Esquilino, ormai multietnico per definizione.
Un percorso fatto di foto e parole che si snoda seguendo l’emiciclo dell’Acquario: dal Tibet di Fosco Maraini -epico in bianco e nero- all’odore dell’India di cibi poveri e cadaveri un soffio continuo e potente, che dà una specie di febbre, come scrive Pier Paolo Pasolini (in India con Moravia ed Elsa Morante tra il ’61 e il ’62). È uno sguardo –quello del regista- affascinato ed inquieto. Nello Yemen girerà Il fiore delle mille e una notte, lavorando quasi da solo, in preda ad un’ossessione parossistica (o come se volesse liberarsi da un’ossessione scrive Gideon Bachmann, sul Messaggero nel 1973), quasi a voler afferrare e fermare un’utopica, insperata, assoluta felicità.
Viaggiano in India anche Ettore Sottsass (che lascia una serie di riflessioni sul senso dell’architettura indiana ed un ricordo esilarante di prati sintetici) Mario Schifano, Roberto Rossellini, che vorrebbe darne una testimonianza oggettiva, scevra di pathos e di luoghi comuni, perché la realtà indiana ha tante facce e poco a che spartire con le leggende. Ed è invece un oriente coloratissimo quello di Luigi Ontani felice –e colta- combinazione di kitsch nostrano, miti e divinità varie di un pantheon che non disdegna ogni sorta di contaminazione.
Dall’India all’estremo oriente, seguendo le rotte dei film di Bernardo Bertolucci e poi l’Afghanistan, seconda patria di Alighiero Boetti, che a Kabul apre il One Hotel. Ultima sezione della mostra per i Dharma Bums, viaggiatori hippie (un’internazionale imprecisata e solidissima, ricorda Fernanda Pivano), che l’oriente lo percorrevano più o meno in autostop. Ripresi dall’obbiettivo di uno loro, Italo Bertolasi.
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