Se l’arrivo dell’estate implicava ogni anno la programmazione di mostre marginali o comunque di minore livello, quando non direttamente la chiusura delle gallerie, quest’anno si va delineando un fenomeno del tutto diverso. Infatti, questa non è soltanto l’estate delle grandi manifestazioni internazionali come la Biennale di Venezia o Documenta a Kassel, ma a Roma in particolare sembra che il motivo sia la corsa verso The Road to Contemporary Art, la prima edizione della fiera capitolina, fino a pochi giorni fa prevista per settembre e ora rimandata al marzo 2008. In quest’ottica bisogna leggere la scelta della galleria romana, che presenta opere degli anni Sessanta e Settanta, insieme a opere inedite, di Fabio Mauri (Roma, 1926).
La mostra si articola su due argomenti diversi. Nella prima sala quindici fotografie in bianco e nero con una struttura bipartita compongono Manipolazione di Cultura, un lavoro che nacque in forma di libro e che risulta essenziale per la comprensione del tema dell’ideologia secondo la visione dell’artista. Ognuna propone una dialettica interna tra una fotografia nella parte superiore, tratta dalla documentazione storica del nazismo e del fascismo, e la pittura nera che riempie la parte inferiore. Mentre sul bordo sottostante, quasi nascosta alla vista, la didascalia, a sinistra in italiano e a destra in tedesco, fornisce la chiave di lettura. Tautologica e paradossalmente descrittiva. Come Si abbronzano e Coltivano il corpo. O ideologicamente più impegnativa come Hanno una idea, in un’analisi critica dell’ideologia e del potere delle immagini per la manipolazione della cultura.
Nella seconda sala, Warum ein Gedanke einen Raum verpestet? (Perché il pensiero intossica una stanza?) invade lo spazio con ventinove schermi bianchi, identici per forma e dimensione, differenziati soltanto per il titolo in tedesco impresso in basso sulla tela. Lavori in cui “il pensiero, e le influenze che le parole possono provocare, diventano i contenuti delle opere”. Lo schermo, concetto che guida tutta la produzione dell’artista, spinge lo spettatore a confrontarsi in modo critico con la propria esperienza del reale. Uno specchio che non riflette l’immagine dello spettatore, ma il suo intelletto e la sua memoria, provocando l’interazione diretta con l’opera. Nella propria solitudine in mezzo allo spazio, la continua ripetizione del bianco disorienta lo sguardo, che non deve osservare all’esterno, ma contemplare all’interno della propria mente e la cui risposta diventa parte integrante del lavoro.
Mauri approfondisce il tema, seguendo un processo creativo iniziato nella metà degli anni Settanta con performance realizzate su supporti insoliti- come dimenticare la mitica proiezione del Vangelo secondo Matteo sul corpo di Pasolini- nell’ultima sala della mostra. Dove il film di Chukhraj La ballata di un soldato viene proiettato su una Cassettiera per gli oggetti personali dei detenuti del carcere di Rebibbia. Il significato del lavoro è definitivamente completato attraverso il racconto di una storia drammatica su di un oggetto caratterizzato da un importante carico emotivo.
angel moya garcia
mostra visitata il 22 giugno 2007
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