La natura morta -corrispondente lessicale, ben più funebre, dell’olandese still leven e dell’inglese still life– è un genere classico nella storia dell’arte, risolutamente laico e simbolista. Da quando, a partire dal Seicento, si è imposta in opposizione all’immaginario sacro fino ad allora predominante, l’iconografia della natura morta ha in effetti sempre fatto perno sul valore emblematico ma non religioso tanto dei singoli elementi che dell’intera composizione. Nelle sue infinite possibilità di giocare con soggetti e significati sta forse la principale ragione del successo mantenuto fino ad oggi.
La mostra romana di Joe Duggan è incentrata proprio su otto sconcertanti nature morte fotografiche. Irlandese di origini (è nato a Limerick nel ’73) ma con base a Londra, Duggan ha guadagnato una certa attenzione nei circuiti artistici internazionali con i suoi precedenti lavori, incentrati sull’instabile rapporto tra figura animata e inanimata. Si tratta di opere realizzate allestendo e poi fotografando idilliache scene di vita quotidiana dove la propria persona interagiva con manichini sistemati all’aperto. Gli esiti, argutamente ambigui, vengono visivamente a collocarsi a metà strada tra le installazioni di Duane Hanson e una puntata in tv dei Fuccons (vista però da uno psicologo cognitivista).
Le opere presentate a Roma intraprendono una strada nuova sotto il profilo compositivo, ma i principi filosofici dell’operazione rimangono simili. Stagliati su un fondo nero dall’intensa profondità, perlopiù rinvenuti in desolate vendite di beneficenza e disposti secondo rapporti incongrui, oggetti come animali impagliati, bambole di plastica, vecchi quadri scadenti, sedie a rotelle, vasi di piante modelli astronomici divengono soggetti di stranianti messinscene, dinanzi a cui è difficile trattenere l’immaginazione dal tentare di recuperare una qualsiasi narrazione.
Attraverso la tensione ricavata dalla fissità irreale degli elementi nell’immagine, l’artista tende un amo irresistibile alla necessità per l’osservatore di una loro organizzazione razionale, svelando impietosamente quel meccanismo protettivo su cui, a ben vedere, si regge l’esistenza: il continuo cercare un senso in ogni accadimento o cosa, e poi soprattutto trovarlo. Realizzate con virtuosistica manualità senza alcun ricorso alle facilitazioni digitali, le ampie lastre in colorprint dell’artista rappresentano così inquietanti scatole magiche, wunderkammer da rigattiere che, con apparente leggerezza, realizzano una stordente sovversione cognitiva. Se le origini storicamente più vicine di simili attentati al quieto vivere visivo non possono che rinvenirsi nel magma surrealista di primo Novecento, è però la poesia polverosa di un grande isolato come Joseph Cornell e gli scherzi della natura giocati dalle fotografie di Joan Fontcuberta che si possono suggerire quali ascendenti spiritualmente più affini. Come i teatri in cassetto del primo e le manomissioni museali del secondo, le nature morte di Duggan contrabbandano una dimensione onirica che lascia interdetti e, quel che è peggio, agita non poco anche il risveglio all’uscita della galleria.
luca arnaudo
mostra visitata il 25 ottobre 2005
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