L’elenco è lungo. La tavola imbandita -guardata a vista dal busto di un antico romano- nella casa di
Cy Twombly;
Burri mentre brucia le sue plastiche; il taglio di
Fontana, grande amico;
Fausto Melotti che sembra Hitchcock, come commenta a voce sostenuta Vittorio Sgarbi durante l’opening;
Michelangelo Pistoletto sui trampoli, barba lunga e cilindro; il disordine del tavolo nello studio di
de Chirico, sovrappopolato di cornici antiche, flaconi di olio di lino e diluenti, un imbuto. Sono circa trecento le fotografie in bianco e nero del periodo 1950-70 scattate da
Ugo Mulas (Pozzolengo, 1928 – Milano, 1973), tutte provenienti dall’Archivio omonimo.
Pagine straordinarie dell’arte contemporanea sulle pareti del Maxxi, sede di
Ugo Mulas. La scena dell’arte, retrospettiva unica nel panorama italiano anche per l’impegno istituzionale. È la prima volta, infatti, che vengono aperte contemporaneamente due sezioni espositive parallele -quella romana e quella milanese al Pac- che confluiranno in un’unica grande mostra alla Gam di Torino a partire da giugno.
Mulas entra nel mondo dell’arte con disinvoltura. Questa è la prima cosa che si percepisce scorrendo le immagini. Una confidenza dovuta anche all’aver frequentato i corsi all’accademia di Brera tra il 1948 e il ‘52, nonché il bar Jamaica, punto d’incontro milanese di artisti e intellettuali. Dal ritratto alla moda, dal teatro alla scenografia, è stato prima di tutto ricercatore e attento conoscitore del mezzo fotografico, con cui ha saputo interpretare qualsiasi genere, sfidando le modalità convenzionali.
La fotografia come sperimentazione: “
Il laboratorio è importante se lo si usa per quello che è in se stesso”, affermava, “
cioè se si elimina l’ottica, e si lavora direttamente sulle superfici, siano esse carte o pellicole, come hanno fatto Man Ray o Moholy-Nagy, e anche molti altri, con l’intenzione precisa di utilizzare quanto avviene nel laboratorio come fatto autonomo, come un mezzo per arrivare a un’immagine la più pura, la più diretta possibile”.
In queste parole è sintetizzata la poetica di fotografia concettuale di uno fra i più grandi fotografi italiani. Parole che trovano riscontro nella serie
Verifiche (1970-72), opere dell’ultimo periodo, nonché tappa conclusiva della mostra che si snoda attraverso quattro sezioni:
Biennali,
Ritratti,
Eventi e, appunto,
Verifiche.
A proposito di biennali, fu proprio a Venezia nel mitologico ‘64 che Mulas s’innamorò della Pop Art. Motivo per cui decise di affrontare uno stimolante soggiorno americano, da cui sarebbe nato il libro
Ugo Mulas a New York. Pop Art 1964-1965.
Nella Grande Mela entrò negli studi di grandi protagonisti –
Duchamp,
Dine,
Wharhol,
Rauschenberg,
Johns,
Lichtenstein,
Noland– con lo stesso entusiasmo con cui, circa vent’anni prima, aveva frequentato il bar Jamaica, che avrebbe segnato il suo destino: “
Ero uno studente, bivaccavo quasi sempre in quella specie di caffé che era allora il Jamaica, una latteria dove si riunivano dei pittori. Qualcuno m’ha prestato una vecchia macchina e mi ha detto: ‘Un centesimo e undici al sole, un venticinquesimo cinque se sei all’ombra.’ E io, con un’enorme diffidenza, ho preso in mano questa macchina”.
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ma non c'era niente di meglio da esporre?
noia, noia, noia
IMPERDIBILE!!!!!!