Con un bagaglio culturale ammirevole –fortemente nutrito di cinema doc (ha visto ben sei volte Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders e adora i film di Lars von Trier e Andrej Tarkovskij)- Bruno Di Lecce (Matera, 1980) è alle prese, nella storica galleria di Via dei Banchi Vecchi, con la sua prima esposizione personale, nell’ambito della V edizione del Festival romano di FotoGrafia.
Laureando in architettura a Roma, questo giovane artista che ha già partecipato a mostre internazionali -tra cui, nel corso del 2006, Mito e Velocità presso il maneggio degli Zar a Mosca e alla Bajaj Art Gallery a Mumbay in India- ama sconfinare dalla pittura alla fotografia. Insegue la poetica dell’ibrido a cui dà voce con le contaminazioni più imprevedibili.
Il suo approccio è apparentemente razionale, parte dall’immagine fotografica per guardare con distacco la realtà che lo circonda. “La maggior parte sono fotografie scattate per caso, spesso le scatto senza neanche guardare nell’apparecchio”, afferma Di Lecce. “Mi piacciono molto le immagini ‘sbagliate’, riprese male. Mi piace quando nei film di von Trier la telecamera trema, non c’è messa a fuoco e i colori sono sbiaditi. Questo senso del brutto, dello sporco, di qualcosa di sbagliato per me è segno di grande spontaneità e carattere”. Il passo successivo è l’uso del colore, spesso colato sulla superficie della tela capovolta -come faceva Marc Chagall– proprio per rendersi indipendente dal soggetto, senza subirne alcun condizionamento.
Nel percorso di Identità e Contaminazioni il leitmotiv è lo sconfinamento dall’identità alla memoria e viceversa. In mostra una quindicina di fotografie che dialogano con altrettante opere pittoriche.
Se nei dipinti il soggetto è spesso di matrice architettonica -spazi urbani o interni di edifici pubblici e abitazioni che normalmente sono anonimi, di transito- in cui la presenza umana è sottintesa, nelle fotografie invece questa ha una sua collocazione specifica: corpi dai volti insoliti, celati dietro una maschera, spaesati e anche un po’ inquietanti. Innegabile la matrice Dada e surrealista di questi personaggi, che abitano “un mondo che non ha una forma, una sua identità, o meglio è frutto dell’abbinamento di mondi diversi”.
“All’inizio era tutto molto casuale,”, spiega Di Lecce, “poi quando una volta l’oggetto è capitato sul volto della persona ritratta è come se avesse trovato l’incastro, la sua collocazione.”
Tra i vari volti familiari -Zia Rosa, Nonna Rosa, Zio Michele, Zio Antonio, Papà, Mio cugino Simone- anche quello dell’Asino di Rocco che al posto del muso ha un frammento di motorino incenerito. “In questo caso l’integrazione è perfetta, è come se l’oggetto si umanizzasse. Ci sono anche oggetti industriali abbandonati che diventano quasi reperti storici. Messi sul volto fanno venire in mente certi ritratti di Picasso. Solo che Picasso trovava questi riferimenti nella scultura africana. Mi affascina anche questa vicinanza tra il futuro -rappresentato dalla tecnologia, dalla plastica e da altri materiali del genere- e il passato.”
manuela de leonardis
mostra visitata il 29 maggio 2006
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