Sembrano strappati alla materia grezza i protagonisti del video in stop-motion e delle microambientazioni scultoree di
Jessica Iapino (Roma, 1979). Sono come minuscoli Golem della leggenda talmudica legata alla creazione: embrioni umani allo stadio primordiale, antecedente il soffio divino. Dove il limo, qui divenuto pongo, indurito dall’esposizione agli elementi e sbiancato dal fuoco di passioni impraticabili – per assenza d’identità psichica e fisica dei soggetti – è simbolo di purezze superflue, senza traviamento.
Nel video, al piano inferiore della galleria, l’impianto narrativo è distorto dalla convulsiva animazione
frame by frame a velocità dissimili. La scomposizione in una doppia visione filmica, afferma Micòl di Veroli, “
accentua il dualismo visivo e psicologico e l’alienazione spasmodica dei personaggi”. Espressione condensata, deposito di gesti, comportamenti e pratiche che la società legittima e riconosce, il corpo – come suggerisce la ricerca di Iapino – ci appartiene solo in parte. Esposto com’è alle pressioni e agli imperativi spesso contraddittori della morale, del potere e dell’efficienza, si fa sempre più irrimediabilmente estraneo e irraggiungibile.
In una sorta di proto-Eden, un grigio territorio d’incomunicabilità, prigionieri del loro stesso rifiuto all’apertura e allo scambio (hanno il volto ostinatamente coperto dalle mani), gli interpreti, uguali e sdoppiati, si muovono sulla duplice scena senza interagire fra loro. Sono impegnati in una frenetica lotta-amplesso con un terzo elemento: un serpente dalla testa di anturio. Simbolo polivalente benefico/malefico dell’inconscio collettivo, il serpente – origine della vita e della libido, così come della demoniaca tentazione – è qui connesso al fiore, metafora dell’ermafrodito.
Assistiamo a uno scontro all’ultimo sangue, dove vittima e carnefice si sovrappongono e l’erotismo diviene affermazione della vita fin dentro la morte. Individui che isolatamente muoiono nel corso di un’avventura inintelligibile, spinti dall’ossessione di una totalità originaria; proprio la nostalgia di questa interezza, “
il desiderio di un passaggio alla continuità e alla fusione, mortale, per ciascuno di due esseri distinti”, secondo Bataille, governa l’erotismo.
Stessa tematica nelle micro-ambientazioni scultoree al piano di sopra, riproposizioni all’osso dei “teatrini” bidimensionali martiniani, a loro volta rilettura di bassorilievi duecenteschi.
Hide & seeck simula l’angolo di un edificio che, seppure abitato, trasuda vuoto e solitudine. In
Back at your door, in
Tinckerbell sigh o in
Fireworks and kisses, le statuine si occultano all’interno di quinte a spirale (geometrizzazione del Creato), forate e/o incise da rose trilobate (simbolo solare e cosmico).
Questo linguaggio silenzioso dei segni, retaggio subconscio di un antico legame tra micro e macrocosmo, amplifica l’angoscia di non sentirsi più parte di una comune origine, di cui abbiamo perso ogni traccia.
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