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23
ottobre 2007
fino al 2.XI.2007 Matvey Levenstein Roma, Galleria Lorcan O’Neill
roma
Chiese d’Italia dipinte alla perfezione. Da un artista specializzato in interni -e silenzi- metropolitani. Austerità devozionale e arredi liturgici al posto delle atmosfere da living room. L’arte è fatta di piccole grandi sfide...
C’è un’Italia poco appariscente fatta di navate silenziose, di chiese appartate e austere anche quando barocche. Un’Italia della devozione fuori orario che, a giudicare dal ciclo di dipinti che ha scelto di presentare, deve aver incuriosito e affascinato non poco Matvey Levenstein (Mosca, 1960; vive a New York). In più, si sa, di questi tempi sotto i riflettori del mondo c’è la religione.
Levenstein è conosciuto per l’intimismo iperreal di interni assolutamente metropolitani, per una metafisica dal volto pop fatta di stanze intatte e arredate con gusto modernista. Il suo lavoro consiste essenzialmente nella formalizzazione di una doppia azione: sovrapporre a situazioni architettonico-ambientali il più possibile neutre la nitidezza di una pittura del tutto impersonale, priva di connotazioni gestuali; riscattare l’immagine prescelta da un surplus di fissità e finitezza avanzando in soggettiva, “inquadrando” come decisivi elementi concettualmente marginali (quasi sempre la presenza isolata di mazzi di fiori). Il tutto in un’atmosfera da non-luogo misteriosamente calda.
La scommessa di trasferire questo schema operativo tra i marmi, gli altari e i candelabri, di interrogare il silenzio degli arredi in una dimensione profondamente connotata in senso spirituale, è operazione intrigante benché, chiaramente, a rischio cul de sac. L’artista se ne rende conto e, tranne in pochissime occasioni, preferisce non rischiare l’affondo. La soluzione proposta è l’impaginazione di un’opposizione campo largo/supporto minuscolo che, se da un lato permette di non finire impigliati in un reticolo di simboli, dall’altro comporta l’arroccamento di tutta (o quasi) la mostra in zona resoconto pseudo-vedutista.
Il risultato finale, un inventario di irreprensibili quadri-cartolina tra il diafano e il meccanico, scaturisce da questa decisione, dal ricorso a una distanza di sicurezza che implica la rinuncia agli ardui ma necessari rigurgiti da fermo immagine. L’esperimento viene portato a termine senza sbavature, ma resta il fatto che i soli momenti avvincenti di una passeggiata per chiese che vorrebbe bastare a sé stessa sono ancora quelli in cui l’appostamento non cede alla solennità del contesto, né di contro l’ambientazione al primissimo piano del bersaglio.
Completano e rafforzano la mostra due pezzi fuori tema. Due autoritratti, uno dei quali di dimensioni ragguardevoli, recentissimo, languido e atmosferico ancorché icastico (l’altro, del 2005, è un piccolo interno con figura), con cui Levenstein presenta il proprio percorso e nel contempo lo dichiara suscettibile di sviluppi, in direzione di un romanticismo meno imballato. Può un artista che sbaglia una mossa dimostrarsi un artista assolutamente da seguire? Certo che sì.
Levenstein è conosciuto per l’intimismo iperreal di interni assolutamente metropolitani, per una metafisica dal volto pop fatta di stanze intatte e arredate con gusto modernista. Il suo lavoro consiste essenzialmente nella formalizzazione di una doppia azione: sovrapporre a situazioni architettonico-ambientali il più possibile neutre la nitidezza di una pittura del tutto impersonale, priva di connotazioni gestuali; riscattare l’immagine prescelta da un surplus di fissità e finitezza avanzando in soggettiva, “inquadrando” come decisivi elementi concettualmente marginali (quasi sempre la presenza isolata di mazzi di fiori). Il tutto in un’atmosfera da non-luogo misteriosamente calda.
La scommessa di trasferire questo schema operativo tra i marmi, gli altari e i candelabri, di interrogare il silenzio degli arredi in una dimensione profondamente connotata in senso spirituale, è operazione intrigante benché, chiaramente, a rischio cul de sac. L’artista se ne rende conto e, tranne in pochissime occasioni, preferisce non rischiare l’affondo. La soluzione proposta è l’impaginazione di un’opposizione campo largo/supporto minuscolo che, se da un lato permette di non finire impigliati in un reticolo di simboli, dall’altro comporta l’arroccamento di tutta (o quasi) la mostra in zona resoconto pseudo-vedutista.
Il risultato finale, un inventario di irreprensibili quadri-cartolina tra il diafano e il meccanico, scaturisce da questa decisione, dal ricorso a una distanza di sicurezza che implica la rinuncia agli ardui ma necessari rigurgiti da fermo immagine. L’esperimento viene portato a termine senza sbavature, ma resta il fatto che i soli momenti avvincenti di una passeggiata per chiese che vorrebbe bastare a sé stessa sono ancora quelli in cui l’appostamento non cede alla solennità del contesto, né di contro l’ambientazione al primissimo piano del bersaglio.
Completano e rafforzano la mostra due pezzi fuori tema. Due autoritratti, uno dei quali di dimensioni ragguardevoli, recentissimo, languido e atmosferico ancorché icastico (l’altro, del 2005, è un piccolo interno con figura), con cui Levenstein presenta il proprio percorso e nel contempo lo dichiara suscettibile di sviluppi, in direzione di un romanticismo meno imballato. Può un artista che sbaglia una mossa dimostrarsi un artista assolutamente da seguire? Certo che sì.
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Galleria Lorcan O’ Neill
Via degli Orti D’Alibert 1e (zona Trastevere) – 00165 Roma
Orario: da lunedì a venerdì ore 12-20; sabato ore 14-20
Ingresso libero
Info: tel. +39 0668892980; fax +39 066838832; mail@lorcanoneill.com; www.lorcanoneill.com
[exibart]
Infatti, può essere un esempio osservare!