L’arte va in scena. Villa d’Este apre il sipario e ospita per la prima volta una mostra d’arte antica. Trentasette ritratti del ‘600 e del ‘700, tutte opere da collezioni private e alcune mai esposte al pubblico, come quelle di
Pompeo Batoni.
Questa non è una mostra sul barocco in un qualsivoglia dei suoi innumerevoli aspetti. È una mostra sul ritratto barocco, e di questo s’indaga nei minimi dettagli. Una specialità ben definita e con importanti differenze dalle epoche precedenti e posteriori. La quadreria è d’eccezione:
Nicolas Régnier,
Guercino,
Giusto Sustermans,
Baciccio,
Ferdinand Voet e Raphael Mengs, solo per citarne alcuni.
Una cosa li accomuna: la spettacolarità. Non manifesta nell’indiscussa bravura dei suoi esecutori quanto nell’essere il tema trainante, la
vis e l’anima. A essere indagata non è tanto la psicologia del personaggio. Non c’è lo sguardo sfumato di
Monna Lisa con cui
Leonardo ci lascia ancora a parlare della sua espressione. Non c’è il mistero del ritratto tizianesco. Certo, le opere in mostra non sono per questo prive di espressività. Tutt’altro. Ma non è questa la caratteristica principale.
Soprattutto il Seicento è il secolo dell’apparenza, della teatralità, della comunicazione a dirla in termini odierni. È il secolo d’oro, la golden age delle arti, dal teatro alla letteratura, dalla pittura alla scultura. E quale migliore parterre se non una galleria di ritratti
vip, per raccontare un’epoca? Papi, cardinali, principi e personaggi di spicco per mostrare fasto, potenza, importanza, celebrità.
La pittura barocca, insieme con altri linguaggi artistici, è una pittura di propaganda. Il fine è quello di educare, convincere e commuovere, come sottolinea giustamente il curatore.
E all’epoca non c’era Saatchi & Saatchi, c’erano i grandi pittori che, con metafore celebrative e altri espedienti tecnici, comunicavano il potere. A usare ancora le parole di Petrucci, questi in mostra sono ritratti monumento eternamente in posa a “
esprimere le esigenze di prestigio e un potere che doveva sembrare caduto dal cielo, per volontà divina”.
Capolavoro in questo senso è senza dubbio il
Ritratto di Clemente XIII di
Raphael Mengs, opera del 1758 che esprime con gradualità il passaggio al nascente neoclassicismo. Non c’è rottura col passato; anzi, continuità, espressa per esempio nella posa ripresa dalla statua di San Pietro di
Arnolfo di Cambio. Una citazione antica ma con un coraggioso esercizio prospettico, espresso nella sovrapposizione di diversi piani: la scenografica tenda, la sedia, il corpo, il braccio, le ginocchia, la mozzetta di velluto. La qualità del dipinto è superba, la ricchezza delle stoffe e il loro movimento, il loro essere nello spazio fanno quasi dimenticare chi sia il protagonista.
È un rapimento simile a quel che accade allo spettatore della mostra che, tra echi dei giochi d’acqua che vengono dai meravigliosi giardini e stanze affrescate che si rincorrono l’una nell’altra, rischia di perdersi sotto i colpi di un fascino subito senza possibilità di replica.