Come si fa a sposare una causa senza affatto conoscerla? Come si fa a capire un artista senza vederlo all’opera, senza immergersi nelle sue elaborazioni e senza neanche visitare una sua esposizione? Domande che arduamente possono trovare risposta ma che, se si ha la capacità sintetica di
Claudio Abate (Roma, 1943), si scoprono velate da un leggero manto di pigrizia e dabbenaggine.
Non è sicuramente necessario aver studiato a fondo i protagonisti delle fotografie del grande “narratore” romano per godere dello spettacolo visivo, emozionale e culturalmente ricco che l’Accademia di Francia lascia agli occhi dell’anche più sprovveduto visitatore. Muovendosi per gli spazi immacolati che sono dedicati alle immagini di Abate, la migliore tradizione francese dello spazio architettonico restaurato -così come doveva essere idealmente, secondo
Viollet Le-Duc– si trova “acceso e sporcato” da visioni oniriche, paesaggi impossibili, presenze evocative e opere che raccontano almeno mezzo secolo di storia dell’arte.
Nelle tre sale iniziali, la scelta curatoriale poggia sulla quasi totale omogeneità delle fotografie in bianco e nero, tecnicamente divise in modo equo fra stampe ai sali d’argento e stampe lambda, accompagnando il visitatore in un’escursione cronologica che va da
Bella Ciao (1965) di
Pino Pascali ad
All’ombra del sapere (2002) di
Giuseppe Gallo e a
Spoglia d’oro su spina d’acacia (2002) di
Giuseppe Penone. Tutto questo facendosi travolgere dalla grande abilità tecnica di Abate nel racchiudere per intero
Lo Zodiaco (1970) di
Gino De Dominicis e di questi cercando invano il protagonista nel
Disegno (1979). Si può anche avvicinarsi a cavalli “veri”, come quelli nell’installazione di
Jannis Kounellis del 1969 oppure ridere amaramente di quelli “finti” presenti in
Dom Quijote de la Mancha (1974) di
Luigi Ontani.
La scalinata, che permette l’accesso alle seguenti quattro sale, è un corridoio, un “miglio verde di speranza” verso la forza del colore e dell’immagine al di là delle ricerca singola di ogni artista. Abate propone una
hall of fame nella quale troviamo
Gilberto Zorio,
Oliviero Rainaldi,
Liliana Moro e, su tutti,
Teresita Fernandez. Il climax ascendente raggiunge l’apice nelle ultime stanze, dove in un susseguirsi di incroci architettonici e tunnel della mente si aprono le fotografie di maestri assoluti quali
Carla Accardi,
Mario Merz,
Mario Schifano e
Anselm Kiefer, la cui
Sappho (2005) è stata protagonista proprio a Villa Medici. Non solo: quando la fotografia s’incontra con opere che già hanno una presenza scenica e una capacità di far trasalire lo spettatore, ecco che ci si trova di fronte a
La Venere degli stracci (1967) di
Michelangelo Pistoletto, al
Muro Occidentale o del Pianto (1993) di
Fabio Mauri e all’
Expositio (1994) di
Giulio Paolini.
Claudio Abate rimane dunque nell’Olimpo di quei pochi che hanno saputo e potuto percorrere la strada della proposta artistica e culturale al fianco di chi ha costruito quella strada e, proprio grazie all’opera del fotografo romano, ha fatto sì che la via dell’arte fosse costellata di immagini senza tempo e senza luogo. Insomma, in ogni luogo, oltre i movimenti artistici e per chiunque.