Mostrate nella più classica accezione, quella di racconto
e quindi di memoria, le immagini esposte affiancano fotografi di diverse
generazioni e con differente percorso artistico. Ciò che li accomuna è
l’utilizzo della fotografia, a colori e in bianco e nero, quale strumento di
sintesi e cronaca.
I fotografi, invitati dal curatore Marco Delogu, hanno
immortalato paesaggi esotici ma anche realtà a noi molto prossime, palesando
come alcune prospettive possono mutare se esaminate da una punto di vista
diverso. È il caso degli scatti di
Luca Campigotto. I suoi panorami fanno pensare a
chissà quali luoghi lontani e incontaminati; invece sono le vicinissime – e
abusate – Isole Pontine, guardate con un occhio carico di amore e umiltà.
Anche se con soggetti opposti, un atteggiamento simile è
rintracciabile anche nelle foto di
Eleonora Calvelli. Appositamente realizzate,
mostrano gli interni sontuosi e abbandonati degli aristocratici palazzi di
Zagarolo e Ariccia. E, in alcuni scatti, con una certa originalità rintraccia i
rimandi architettonici con quelli paesaggistici, mettendo in stretta relazione
– a volte quasi confondendoli – colori, linee e forme.
Piuttosto che al paesaggio o agli interni, l’attenzione
degli altri fotografi è catturata dalle persone, dalla loro quotidianità, dalle
loro abitudini e stravaganze. Osservate con occhio puro, senza preconcetti e
giudizio, le persone ritratte sono colte in momenti che sono un perfetto
compendio di tutto un universo. Nei ritratti a colori del 2007, realizzati
nella Guinea Conakry,
Giuliano Matteucci cattura le contraddizioni di un paese diviso fra
le speranze di un riscatto sociale e l’amorevole conservazione delle tradizioni
popolari, testimoniate dai due ragazzi abbigliati con la tipica tunica, ripresi
all’interno di una spoglia stanza, con alle spalle i poster dei loro beniamini
musicali.
Mentre in quelli di
Fabio Ponzio, realizzati in Albania (1991) e
in Romania (1992), resi ancora più drammatici dall’uso spietato del b/n, sono
immortalate la desolazione e la quotidianità di un paese ancora congelato nella
morsa della sua storia appena passata. Una dignitosa quotidianità vissuta in
una forte povertà è invece quella descritta da
Paolo Woods nel suo viaggio nel Benin del
2008.
Una desolazione che si accompagna anche da una certa
estraniazione è invece quella raccontata dalla
Eva Sauber in tour per il Portogallo nel
2004-05. Maggiore respiro è infine dato al maestro
Piergiorgio Branzi con un nucleo di dieci foto
scattate nel 1961, dove si rintraccia tutto quello che l’immaginario collettivo
conosce dell’India: la povertà accompagnata da una forte religiosità e
sacralità, che vede uomini e animali convivere negli spazi comuni in una
dimessa accettazione del proprio destino.
Nonostante uno scarno ed elementare allestimento, il
merito della mostra è l’attenzione, nonché la promozione, che la Provincia di
Roma negli ultimi tempi sta dedicando a questa forma artistica, tentando di
colmare molte mancanze, tipicamente italiane.