C’è tanto –forse troppo?– nelle opere di Pietro Ruffo (1978, vive a Roma): tante storie, tanto minuzioso lavoro, tante citazioni, tante tecniche.
Ulteriore evoluzione della precedente personale Geologia umana nello Spazio Lavoratorio di Milano, i lavori esposti continuano a raccontare fatti diversi, ma in fondo paralleli. La storia della Terra e dell’evoluzione, forse anche umana. Forse, perché in realtà in questi lavori l’uomo non compare mai, se non nel suo ultimo e irreversibile stadio: quello di scheletro. E quando è fatto cenno alla sua presenza -macabra come quella delle affastellate cripte dei cappuccini o come quella della stratificazione archeologica- è nella sua accezione più deteriore: il colonialismo.
Ma anziché indicare i tortuosi percorsi coloniali, cari a Yinka Shonibare, Pietro Ruffo, racconta dell’aspetto più cupo e triste, quello della morte. Realtà che, riportata ai nostri giorni, mostra che il colonizzatore di oggi è lo stesso di ieri, gli Stati Uniti e, per essere più precisi, la grande Nyc. Con le dovute differenze, è ovvio. Indicazione affatto traslata per la puntuale citazione nei lavori Flag, che sembrano voler dare, oltre ad un meritato tributo, anche un significato simbolico invece negato nelle Tre bandiere (1958) di Jasper Johns.
Su altri lavori invece incombono le inquietanti articolate forme del polline, tante quanti sono i cristalli di ghiaccio. Con dimensioni fuori scala, il polline sembra piovere dal cielo come l’immensa astronave di Independence day, per invadere -di nuovo o ancora- la terra, o meglio, la grande Gondwana. Nome che intitola infatti il trittico realizzato con tecnica mista. Trittico che permette a Pietro Ruffo di rappresentare il globo nel suo insieme di “est, mid. ed ovest”.
Ogni cornice racchiude al suo interno due distinti lavori: una fotografia satellitare -per riportare la fotografia al suo originario utilizzo scientifico?- e una porzione morfologica del continente (Antartide, Karakorum e Everest), percorsa da un sottile grafismo a matita che traccia le forme, sempre fuori scala, del polline. Ovviamente tutto sotto un sottile strato di gesso a ricordo dei grandi ghiacciai che ricoprivano l’antico continente.
Con il preciso intento di sottolineare il “rapporto fra catastrofe e polline, quest’ultimo inteso come forma parassitaria, perché” spiega “penetra nella terra e succhia energia, mischiando così questi due rapporti di forza”. E le catastrofi naturali sono viste nel significato più puro: di cambiamento”. Cambiamenti che sono sempre in atto, che non hanno mai avuto fine, per sottolineare la mancanza generale di stabilità e l’estrema fragilità dell’esistenza umana. Perché l’uomo può soccombere tanto sotto gli strati di ghiaccio quanto sotto dei giganteschi granelli di polline.
daniela trincia
Fino al prossimo 10 agosto il Museolaboratorio d’Arte Contemporanea di Città Sant’Angelo ospita il progetto "Alfredo Pirri. Luogo Pensiero Luce",…
Tra documentario e sogno, alla Pelanda del Mattatoio di Roma va in scena la video installazione di Mònica de Miranda,…
In occasione della 33ma edizione dei Giochi delle Olimpiadi e della Paralimpiadi, Parigi si riempie d’arte, ancora più del solito:…
L’Academy Museum of Motion Pictures di Los Angeles presenta due nuove mostre che celebrano la grande storia del cinema, con…
Star del cinema, ma anche appassionato collezionista. Questa settimana, Jim Carrey offre all'asta a Los Angeles parte della sua raccolta,…
Un progetto tra musica e arte, immagine e suono, memoria e oblio, per portare alla luce l’eredità coloniale dell’Occidente e…
Visualizza commenti
hei Pietro è la sensibilità espressa in arte. niente da aggiungere. ciao vecchio:), ci si sente.