Reame di rame è un gioco di parole, un’omofonia basata sulla similitudine di due termini così come, due, metalli, oro e rame, si somigliano per brillantezza e colore, ma non per valore. La mostra di Tommaso Cascella a Viterbo ci imbriglia in questo bisticcio, oscillante tra illusoria nobiltà nell’apparenza e sostanziale povertà della materia. Un equivoco che l’artista trasferisce dal vicino atelier di Bomarzo alla sala quattrocentesca di Palazzo Chigi, sede della Galleria Miralli. Congiunzione con un surreale momento archetipico della scultura, un primitivismo dal caldo sapore mediterraneo, che getta le radici in una mitologia picassiana , utilizzando la leva segnico – analogica di Mirò, anche se, con una ragione tutta personale annuisce all’esperienza in un presente sibillino e satirìaco. Come se Cascella alludesse ad un demone comune denominatore dei popoli latini, capace di tracciare queste linee così simili a graffiti rupestri. Come in criptici idoli apotropaici, la forza teurgia dei simboli ha ancora il sapore del genius loci. Infatti, c’inquietano
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