C’è scritto El Paraiso sull’insegna e sul cartello. Dietro ci trovi una baracca, irrimediabilmente più che povera o una distesa che fino all’orizzonte appare coerentemente disabitata, qualche volta c’è solo il cielo, come fosse una lastra azzurra lasciata a mo’ di quinta: ovunque la freccia continua a puntare verso il paradiso retrostante, serafica, chiara – come deve essere un’indicazione stradale – mentre l’immagine piano piano si scolla dalla riproduzione fedele
Fotografa Paradisi, Manuel Rothschild (Buenos Aires 1963, vive e lavora a Berlino), per trovarli semplicemente si attiene alle indicazioni: la premessa probabilmente è che non ci sia inganno nelle diciture, allora dove si legge El Paraiso non ci sono fraintendimenti, quel luogo è un paradiso, uno dei tanti possibili, forse una possibile rappresentazione di quell’uno incommensurabile.
Si tinge di paradosso, ma non rischia di impantanarsi nel non sense, questa collezione – in mostra ci sono due grandi fotografie, ma si tratta di una serie che coinvolge anche gli oggetti, purché abbiano il fatidico nome – di fatto assurda, ma costruita con una linearità esemplare: non s’insinuano questioni care alla filosofia medievale che iniziano col dubbio e finiscono inesorabilmente nell’astrazione, le immagini resistono in equilibrio su un filo sottile di spiazzamento e contemplazione.
Una collezione di fantasmi scrive Antonio Arévalo curatore della mostra (che fa parte degli eventi di FotoGrafia I festival di Roma), nel testo che introduce e guida attraverso l’allestimento: una successione – ma quasi simultanea – di tante diversissime apparizioni, come tracce della realtà, della vita, dei cambiamenti dell’America Latina, soprattutto dell’indescrivibile, del sommerso, di quanto per immagini più che rendere si materializza. Ed è una selezione varia, che sceglie tra temi, tecniche, situazioni, da Andres Serrano (New York, 1950) – che non ci sembra bisognoso di presentazioni – al gioco di fili tra due mani di una Parca invisibile di Matilde Marin ( Buenos Aires, 1948), al dramma degli scomparsi nel crudo bianco e nero di Milagros de la Torre (Lima 1965), o nei colori acidi e nei contorni sfocati dei tanti volti della pesca miracolosa rappresentata dal giovanissimo Carlos Motta (Bogotà 1978).
C’è un video del 1977 di Antonio Manuel (Avelas de Camihno, 1947) che è una somma di foto, come una continua tragica memoria e ci sono le parole su sei cuscini di velluto, che descrivono l’assenza delle immagini (l’opera è di Rosangela Rennò), c’è una giovane donna con i
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