La pubblicazione nel 1857 di
Les fleurs du Mal, raccolta poetica di Charles Baudelaire, sottolineava i due aspetti entro cui si agita la crisi dell’intellettuale, cioè lo
Spleen, noia e disgusto della vita, e l’
Idéal, ricerca di un ideale come fuga verso mondi lontani o esotici. Nasceva così l’estetica simbolista, ulteriormente sviluppata dai poeti “maledetti”, che mostrava un profondo interesse per la spiritualità, l’immaginazione e il mondo onirico. Temi come la morte, l’amore e la religiosità venivano radicalizzati con il diletto per l’orrore, il senso del peccato e il satanismo. Un’angoscia esistenziale intensa e disperata, che ottenne poi la sua legittimazione con la psicoanalisi, che interpretava la chiusura in se stessi come un modo per ascoltare quelle voci interiori e trovare una corrispondenza che collegasse tutte le cose.
Questa ricerca delle corrispondenze, tra mondo oggettivo e sensazioni soggettive, iniziata da
Gustave Moreau e
Pierre Puvis de Chavannes, giunge ai nostri giorni tramite il lavoro di
Jan Van Oost (Deinze, 1961; vive a Gent). Con la sua mostra presso la galleria capitolina, intitolata
La Profezia di Beatrice, si chiude una trilogia sul tema dantesco, iniziata dieci anni fa con la mostra
Inferno alla galleria di Lucio Amelio a Napoli e con
Il sogno di Dante alla Nichidio Gallery di Tokyo.
Al piano superiore dello spazio, quattro grandi lavori pittorici della serie
De Sade Pasolini danno inizio a un viaggio fantastico e psicologico, che indirizza lo spettatore fino al livello inferiore, dove tre sculture rinnovano una particolare e personalissima visione della realtà, perfetta e particolareggiata come nell’arte fiamminga.
Così, la discesa finisce proprio di fronte al lavoro
Black Mirror, in cui un proiettile sparato al suo centro frammenta il riflesso della propria visione, come se si volesse annichilare metaforicamente la “
fase dello specchio” lacaniana, ovvero il processo di produzione dell’illusione di un Io, di un Sé. Tuttavia, se a sinistra
Bysantium richiama la simbologia cristiana della cultura medievale e barocca, è nell’ultima stanza che meglio si può percepire l’immaginario dell’artista belga.
Black Woman rappresenta l’opera più cospicua della mostra per quanto riguarda la sua produzione. La sua rigidità e bizzarria, e allo stesso tempo la sua veridicità, provocano un inquietante turbamento, che induce quasi morbosamente ad addentrarsi in un mondo popolato da “
visioni cupe, estatiche, associazioni spaventose, deprimenti e angoscianti, collegamenti irrazionali fra realtà fisiche tangibili e reazioni emotive incontrollabili”, come scrive il curatore Lóránd Hegyi.