Silenziose, quasi surreali, mostrano grigiori di esili tratti che sembrano disegnati. Incorniciate da una sottile asta di metallo, sono invece realizzate in c-type print, lontano da ogni supremazia facilitata del digitale: si tratta delle 23 fotografie di
Adam Broomberg (Johannesburg, 1970; vive a Londra) e
Oliver Chanarin (Londra, 1971). L’eleganza e la solennità della galleria romana possono però risultare troppo loquaci per questi scatti diretti, di un’argomentazione storica viva, ruvida di una pesante consapevolezza:
The Red House incornicia le speranze talvolta figurative e talora astratte di centinaia di prigionieri curdi, graffiate sui muri delle carceri irachene sotto il regime di Saddam.
Il team di formazione inglese è alle prese ormai da dieci anni con una fotografia documentaristica attiva in un linguaggio socialmente coinvolto, proiettato a rivelare la verità delle minoranze. Passando dalla discriminazione razziale sudafricana alla contemporaneità israeliana, il lavoro di Broomberg e Chanarin evidenzia da sempre una fotografia luminosa, chiara, pulita. Lo stesso vale per le immagini di
Red House, fotografie testimoni di un contesto post-bellico nascosto, in grado di rivelare – attraverso un’inquadratura totale e netta –
le pulsioni mentali di centinaia di reclusi, capaci di incidere volti di donna o cubi vuoti su un muro povero di speranze.
I due fotografi non fanno altro che suggellare l’atto “artistico”, liberatorio, di prigione in prigione, portando alla luce narrazioni a sé stanti di disegni murali unici, singoli. Lo scatto assolve così la funzione di isolare l’immagine ed estrapolarla dal suo contesto drammatico, per riprodurne la totale verità: un disegno senza tempo. La parete dell’atto pittorico nasconde la sua superficie bidimensionale per aumentare di volume agli occhi dell’obiettivo. Ecco che i solchi reali scavati sul muro divengono grumi di macchie pastose e grigie, e il muro stesso cessa di essere tale. Non vi è alcun margine tra l’inizio e la fine del disegno che si è deciso d’inquadrare; vi è una decentrata continuità, quella del tratto testimoniato dalla foto.
Ma più si osservano queste immagini, più si tenta senza cattiveria di psicoanalizzarne il significato: volti di donne dai capelli colorati, papere tondeggianti dal becco appuntito e, ancora, scatole geometriche vuote e scheletrite o un impensabile Mickey Mouse dai molteplici colori.
Intorno a queste immagini tutto è silenzioso, e l’eleganza di quel portamento fotografico le allontana dal dolore che racchiudono, confinandole in un altro luogo; un luogo di memoria “d’élite”, che passa in rassegna un piccolo frammento di storia. Non certo di storia dell’arte, ma che fa gioco del loro gioco: un disegno, una presenza, un non ben identificato “‘io c’ero”.