Entrando, è impossibile non rimanere impressionati dallo spazio, completamente ristrutturato. Dopo un periodo di chiusura, la Galleria Moncada riapre, infatti, rinnovata. Con estrema disinvoltura si pone, in questo modo, sulla stessa linea dei migliori spazi della capitale. La luce è il perno sul quale è incentrato tutto il progetto di risistemazione, che si è basato anche sulla ricerca di ulteriori spazi da sfruttare. Così, gli interni immortalati dagli scatti Matthew Pillsbury (Neully – Francia, 1973), sembrano trovare una loro perfetta e naturale collocazione. Seppur alla sua prima personale in Italia, il fotografo francese ha iniziato ad esporre in personali e collettive giovanissimo, quando aveva appena ventun anni. Volendo “rivelare lo straordinario che è racchiuso nell’ordinario”, Pillsbury utilizza senza alcuna sbavatura la tecnica della lunga esposizione. Questo gli permette di “animare” i suoi scatti con evanescenti figure, che sembrano i fantasmi che compaiono di notte, quando tutti dormono. Musei, studi, camere da bagno: tutti luoghi dove l’essere umano perde consistenza, quasi a sottolineare la sua caducità, soprattutto di fronte all’eternità, che, nell’immaginario, è connaturata ai monumenti e alle opere d’arte. E di fronte allo scheletro di un dinosauro, il contrasto è macabramente esasperato.
Il tempo è quindi la grande riflessione del fotografo: scorre veloce, come le persone che si affannano nel loro agire quotidiano. Ma è un tempo che può diventare lunghissimo, se ci si ferma a guardare e osservare quello che è intorno. Così, negli scatti in grande formato di Pillsbury, lo schermo di un computer, di un televisore o, per antonomasia, quello di una finestra, sembra elevarsi ad unico protagonista della scena. L’uomo, svuotato e automa, si pone, in una situazione di fattori ormai invertiti, davanti ad esso come di fronte ad un deus ex machina, sicuro di trovare le risposte alle domande che da sempre occupano la mente umana.
L’effetto di straniamento si accentua quando la scena bloccata nello scatto è un esterno: un giardino -che sembra abitato da piccoli folletti circondati, se non addirittura schiacciati, dalla natura- o un patio immerso in una nebbiosa atmosfera, popolato da evanescenti figure. La lunga esposizione permette inoltre al fotografo di fissare, in maniera pressoché spietata, i dettagli dei vari scenari. In questo modo lo spettatore sembra chiamato ad entrare nella scena e a sentire il brusio dei visitatori del museo, il silenzio della valle o il fruscio delle fronde degli alberi, emotivamente coinvolto nell’azione che si svolge sotto i suoi occhi.
daniela trincia
mostra visitata l’8 febbraio 2006
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