Nel linguaggio, l’impalcatura fondamentale è la grammatica: privi di una declinazione esatta, i verbi non si accorderebbero con le parole e la frase apparirebbe incomprensibile. O potremmo dire, invece, che aprirebbe ad altri significati: mostrando i suoi limiti, è come se scavasse un tunnel verso altre realtà potenziali.
Bruno Munari (Milano, 1907-1998) autorizza simili slittamenti. Gioca con il linguaggio per burlarsi dei ponti tra un significato e il suo referente. Così la sua “macchina” non è una solita macchina, sarà aritmica (1951) o tanto più inutile (1949). Altrove il significato è letterale e l’
Olio di lino su lino (1980) corrisponde veramente a delle gocce gettate sul tessuto.
Il percorso che l’Ara Pacis sviluppa intorno a quasi un secolo di biografia d’artista, tra futurismo, industrial design e arte cinetica, è anche la biografia dell’Italia che cambia. I manifesti Campari, il
Posacenere Cubo, le
Lampade Falkland sono simbolo di un’estetica della superficie che la modernizzazione esigeva come propria bandiera. L’
esprit du temps era quello di un consumismo post-bellico che autorizzava il possesso, l’oggettualità più che l’ideologia. Cambiano i rapporti che si hanno con le cose. Un libro può rendersi illeggibile e continuare a essere tale, o forse no. Rimane una domanda che scava quel tunnel. Può anche darsi che sia solo superficie, da accarezzare ad esempio, come la
Tavola Tattile (1931). Le forchette di Munari parlano: rinviano alla gestualitĂ italica e strappano sorrisi ai visitatori.
Togliere e semplificare è il motto dell’artista, perché “
pensare equivale a confondersi“, dunque la semplificazione indotta dalla linea grafica di un bozzetto, la leggerezza delle installazioni di carta, la campitura piatta dei suoi oli
Negativo-Positivo concorrono alla ricerca di “
un arcobaleno di profilo“. E dove anche il profilo è una linea che si staglia su uno sfondo, per Munari è confine aperto e non contorno racchiudente.
L’atmosfera che l’Ara Pacis regala è quella che ci avvicina al mondo di Antoine de Saint-Exupéry o di Sir J. M. Barrie, perché il Munari-padre è forse l’anima più presente in mostra. Numerose le opere che illustrano il metodo sperimentale, la didattica aperta alla scoperta individuale dell’opera. Dagli archivi radio Rtsi risuona la voce dello stesso che racconta aneddoti come fossero favole della buonanotte. Quando l’idea si fa opera concreta, è allora che ridiventa idea: al Piccolo Principe quanto al Peter Pan s’insegna che due punti e una riga fanno un viso, guardiamo negli occhi i nostri
Antenati, che la linea è un orizzonte dove dietro c’è dell’altro, che il tempo si può confondere,
Ora X, e che con la verdura si possono far dei timbri.
L’organizzazione della rassegna per aree tematiche si lascia comprendere a posteriori, tornati a mente adulta, che la mostra nel suo corso ha obbligato a mettere da parte. L’arte è bidirezionale e soprattutto dona un’eredità importante, quella della fantasia e della creatività . L’esposizione fa altrettanto, lasciando che il visitatore giri ogni angolo come scarti un dono natalizio. L’arte di Munari esige curiosi e sognatori. I bambini possono insegnarci qualcosa.