“These sentences comment on art, but are not art”: così l’ultima delle 35 Sentences on Conceptual Art che Sol LeWitt consegnò alle stampe nel 1969. Già nel 1972 John Baldessari tradì l’assunto e di fronte a una cinepresa cantò su ritmi popular le non semplici frasi di quel testo. Il videoartista portoghese João Onofre (Lisbona, 1976) parte proprio da qui per concatenare gli elementi di questa sua prima personale italiana, introducendo alcune importanti variazioni (# 28 “Once the idea of the piece is established in the artist’s mind and the final form is decided, the process is carried out blindly. The are many side effects that the artist cannot immagine. These may be used as ideas for new works”).
Del lavoro di Baldessari, che Onofre dice di considerare “uno dei più importanti per la storia del video come mezzo espressivo”, rimangono la forte centralità del set e la trasformazione di sofisticati concetti in una sorta di bootleg. Tuttavia, mentre l’americano componeva la messa in scena con tratti dimessi, rappresentando solo se stesso e la propria condizione, Onofre si concentra sullo spazio del proprio studio e non rinuncia ad una posizione in qualche modo autoritaria, di chi dirige e osserva il processo messo in atto.
Che si tratti di teatro –Believe (levitation in the studio) 2002- o ancora più esplicitamente di gabbia –Untitled (Vulture in the studio) 2002- oppure di un’improvvisata sala di registrazione, come in questo caso, lo studio è il luogo dove tutto si origina, si ripete e si espone, sotto l’occhio demiurgico dell’artista.
Non è una fiamma, il lavoro ha un suo corso: su una parete della galleria è appeso lo spartito modificato di Like a Virgin, noto brano pop di Madonna, sulla cui base musicale la cantante Catriona Shaw intona l’aulico pensiero di LeWitt.
Senza dubbio la collisione in una cornice minima tra caso e progetto, modulata in ulteriori coppie ossimoriche, ritma più distintamente altri lavori, ad esempio in Casting (2000) e nell’incredibile Instrumental Version (2001), in cui il coro da Camera dell’Università di Lisbona canta una versione a cappella di The Robots dei Kraftwerk. Il vinile su cui è inciso il pezzo completa la mostra, e problematizza il momento dell’innesto di un brandello di cultura popolare sul corpo dell’arte contemporanea, e viceversa. In Catriona Shaw sings la durata dell’inno pop è dilatata oltre misura, gli urletti della Madonna che fu sono ripetuti con mimetismo meccanico dalla docile interprete, lo scarto tra le diverse componenti è quasi limitato allo stupore iniziale: alla fine il tutto assume la forma di un disco bianco senza solchi, destinato a circolare in una ristretta comunità di cultori (altro vinile in edizione limitata). Quanto c’era di epico nella voce e nel volto di Baldessari, sembra lasciare il posto ad un video-manifesto, neppure troppo aperto all’ironica meraviglia che Onofre per primo gode nelle sue opere.
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