Come a bucare il muro bianco di una grande stampa:
Peek-a-Boo, una sorta di spioncino per voyeur dell’inconscio. È all’ingresso della galleria, opera di
Anneè Olofsson (Hässleholm, 1966; vive a New York e Stoccolma). L’occhio chiaro dell’artista – il sinistro, simbolicamente legato al femminile – scruta lasciandosi scrutare, autodafé del fine dell’artista di farsi possedere dallo sguardo, mimetizzandosi nello spazio piatto della fotografia, per rinascere dalla propria morte dialettica.
L’artista svedese, accantonato il tema principale della sua ricerca, ossia il teatro familiare, con questa mostra – dove lavori nuovi sono affiancati ad altri noti – si schiude all’analisi introspettiva. Superata l’ambigua natura della relazione in quanto abbraccio oppressivo, ma anche presenza rassicurante, osservata nelle sue precedenti opere, Olofsson ora s’interroga per strappare all’inconscio una serie di contenuti, sperimentando il suo essere donna sull’orlo di una crisi d’identità.
Innescando il processo trasformativo da figlia a donna, abbandonate dipendenze e sicurezze transitorie, s’imbarca per affrontare la tempesta dell’ambivalenza. Impresa perturbante, dolorosa, traumatica – suggerisce la ricerca dell’artista – ma indispensabile. In
Il Parodiso, il mito della madre-matrigna, dualismo insito nel libro della Genesi (dove la matrigna è il serpente che seduce Eva, portandola alla perdizione ma anche alla consapevolezza) coincide con la fiaba di Cenerentola. La carrozza/zucca in primo piano, che si deforma divenendo mostruosa, è associata nella simbologia all’idea di fertilità e alla gravidanza.
Ecco allora
Hide and Seek, allusione al conflittuale desiderio/angoscia che lega l’essenza primordiale femminea alla maternità. Dove la figura immersa nelle tenebre può rappresentare l’incontro con la propria ombra, fase iniziale del “viaggio” verso l’identificazione del sé. Nella serie
Spinless, del 2004, lo spazio domestico è palcoscenico di situazioni meta-reali pregne d’inquietante atmosfera statica e silenziosa. Gli interni, rigorosamente reali, reinterpretati attraverso l’obiettivo della macchina da presa, enfatizzano fino al parossismo le relazioni sociali e/o personali. La pulizia formale e l’apparente freddezza delle composizioni si sposa a luci e colori che s’ispirano alla pittura fiamminga, riferimento alla tradizione che la fotografa scandinava condivide con l’olandese
Desirée Dolron.
Ancora, un autoritratto e una serie di ritratti della serie
Will you still love me Tomorrow. Qui, scavando nei propri ricordi, Olofsson sembra attingere al concetto barthesiano di fotografia come unico mezzo in grado di riportare “
alla coscienza amorosa e spaventata, la lettera stessa del tempo”.
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Come dire il meglio degli anni '90. Ancora artigianato contemporaneo a testimoniare il momento di decandenza che stiamo vivendo.