La prima impressione che si ricava dalla visita alla nuova mostra di
Lucilla Caporilli Ferro (Roma, 1965) è quella di una meditata continuità con una lunga ricerca personale, svolta entro un ambito astratto in cui la piana riconoscibilità di alcuni referenti fondamentali –
Mark Rothko su tutti, poco sotto
Sean Scully – si combina felicemente a una sempre maggiore saldezza espressiva, debitrice ormai soltanto del proprio rigore.
La fedeltà all’astrazione, in effetti, è una caratteristica fondante non solo della pittura di Caporilli Ferro, ma anche della sua più generale attività di promotrice culturale attraverso quel serio laboratorio artistico che è l’associazione L.I.Art, di cui la pittrice è presidente, e che ormai da diverso tempo rappresenta una sorta di porto sicuro per chi si occupi di astratto a Roma (per rendersene conto basta del resto scorrere i nomi che, negli anni, si sono susseguiti a esporre nella minuscola galleria romana, appartata nel verde del parco di Villa Borghese). È possibile che una simile scelta di campo possa apparire eccentrica rispetto al corso principale dell’arte corrente: non sta a noi difendere o attaccare in tal senso, ma certo alla coerenza, tanto più in tempi volubili e incerti come i presenti, dovrebbe pur riconoscersi un qualche valore.
Al di là, in ogni caso, delle diverse professioni di fede, è indubbio che i nuovi lavori di Caporilli Ferro abbiano un proprio interno magnetismo, una salda presenza di colori e forme, frutto anche di una maggiore distensione delle superfici – dopo una precedente stagione dove queste apparivano invece più matericamente tormentate e fratte – in una dimensione di evanescente liricità, increspata soltanto da sottili spessori, accortamente disposti sotto carta a dinamizzare l’epidermide pittorica.
Detto questo, viene spontaneo richiamare per tale arte la categoria del “
sublime astratto” elaborata da Robert Rosenblum nel suo fondamentale studio sui rapporti tra romanticismo tedesco e astrazione nordamericana. In effetti, se le opere di Caporilli Ferro – animate come sono da una peculiare tensione interna, sapientemente manifestata nelle già citate attenzioni alla volumetria della pittura – non paiono mai completamente in quiete, l’aspirazione d’infinito e l’intimità cromatica che le governano inducono nondimeno a una pausa di raccoglimento nei loro pressi.
E si associa infine alla visione una presa d’atto della singolare misura espressiva che le tonalità terragne e gravi, tanto delle tecniche miste su tela quanto dei più delicati acquerelli in mostra, ancorano al suolo, insieme trascendendolo.