Dalla strada si scorge nella profondità della galleria una svastica di proporzioni considerevoli, di un giallo lucente, che lascia gli oziosi passanti del centro storico alquanto perplessi. Un gesto, un simbolo, una tara storica che si svuota di senso. O forse ne perde il consueto, quello ostracizzato dal dopoguerra, per riabilitare al suo posto il significato augurale, di portatore di fortuna, riservato alla croce uncinata sin dall’antichità. Se i popoli induisti riconoscono in essa la rappresentazione del sole stilizzato con raggi ad angolo retto,
Dario Carmentano (Matera, 1960) ne recupera l’etimo soffocandolo di rose gialle, in segno propiziatorio. Un doppio cartello stradale su fondo blu ammonisce: siamo al confine tra il Regno di Dio e un Extracreato che ci accoglie confusi. La galleria si rivela navicella spaziale -l’assetto messo ingegnosamente a punto dall’architetto Carlo Berarducci nel 2005 di certo stimola l’immaginazione-, un altro mondo dove una svastica di rose gialle è possibile e non può voler dire che ciò che si vede.
“What you see is what you see”, per dirla con
Frank Stella.
Sorride sotto i baffi l’artista. Lasciate fuori la porta tutte le convenzioni e le frustrazioni della società mediatica, Carmentano costruisce un universo oscillante fra contestazione e delirio. In uno sformato di religione e politica, fede e potere, l’artista miscela sapientemente i suoi ingredienti, spruzzando qui e là l’impasto di onesta e velata blasfemia. La religione è al centro dell’obiettivo. Le figure e i riti cari alla tradizione vengono rivisitati alla luce del consumo di massa. Una foto in bianco e nero ritrae un uomo barbuto e rugoso col nome di
Gesù all’età di 2007 anni, un’altra cattura il particolare di una mano che offre una moneta a mo’ di ostia nel momento eucaristico, intitolando
A me!, odierno e ironico “amen” consumistico, un prete vestito di tutto punto come fosse stato prelevato da una foto di
Mario Giacomelli ci saluta col tipico gesto dell’attenti militare,
Papà incornicia il volto dell’anziano padre dell’artista con mitra e stola papale, paradossalmente in cartone.
Giochi di parole, confusione di simboli e materiali, giustapposizioni di valori conducono al riso sull’amarezza dei tempi.
Un rosario conservato in una bella teca blu rivela allo sguardo accorto di essere composto da pallottole usate: guerra e religione congiunte nel martirio comune. Una targa dorata,
In memory of George, all’interno di una scatola in legno insieme a una bandiera americana piegata come l’omaggio a un soldato caduto:
Petrolio su tela, il titolo dell’opera, spiega la verità di una guerra combattuta per profitto, dove il simbolo dell’identità di un Paese lascia il posto all’odore del guadagno, azzerandone ogni significato nazionalistico positivo.
Love Story in Baghdad ritrae in foto due cigni che, come civili inconsapevoli, portano indosso un bersaglio, pedine di una guerra senza compromessi.
Chiude il percorso un lavoro elaborato per e dentro gli spazi della galleria, sortito dall’esperienza avuta nella sala interrata. Per la sua forma irregolare e prismatica, ha ispirato all’artista un video che ripercorre tutto il perimetro e gli angoli che avvolgono lo spazio, col sottofondo sonoro di un “brum” automobilistico.
G.P. Monti ne suggerisce ironicamente la duplice valenza: siamo a un Gran Premio o alla Galleria Pio Monti?